Con i decreti di scioglimento del 1991 dei Comuni di Casandrino e di Sant’Antimo per infiltrazioni camorristiche fu pesantemente sanzionato e colpito dallo Stato un modello di sviluppo, basato sullo scellerato consumo di suolo e sull’abusivismo edilizio. Queste pratiche avevano, è proprio il caso di dirlo, cementificato gli interessi della camorra con quelli della politica. È sull’abusivismo edilizio che si era trovato un punto di contatto tra ceto politico ed economia malavitosa, un “sistema” rodato. In quei decreti di scioglimento c’erano, però, anche elementi di maggiore pericolosità, come i rapporti tra imprese, politica e camorra nella gestione degli appalti pubblici. Su questo aspetto non ci sono state, in seguito, indagini o approfondimenti, nulla su quanto denunciato nel provvedimento governativo. I circuiti illegali dell’economia, inoltre, non sono stati mai indagati a dovere dall’autorità giudiziaria, tanto che, nei primi anni Novanta, ci siamo trovati di fronte a un diagramma falsato, dove di fronte a un paese arretrato e con indici altissimi di disoccupazione, si è palesata una vistosa opulenza testimoniata dal mercato del credito, che contava, in quel periodo, la presenza di più di quattro istituti bancari.
Quel “sistema” ha, nei fatti, beneficiato di un’inaspettata impunità fino ai recenti arresti, che hanno coinvolto politici, imprenditori e funzionari del Comune di Sant’Antimo, a seguito dell’operazione Antemio della Direzione distrettuale antimafia di Napoli. Infatti, tra i nomi dei soggetti arrestati e indagati a vario titolo ci sono alcuni protagonisti di quel periodo: Alfredo Di Lorenzo, sindaco di Casandrino durante lo scioglimento del 1991, i fratelli Cesaro, Luigi Vergara, ex assessore ai tempi dello scioglimento del Comune di Sant’Antimo nel 1991. E poi i boss storici dei clan Puca, Verde e Ranucci. Questa circostanza ha confermato ulteriormente che quel patto scellerato tra politica, imprenditoria e camorra avrebbe già negli anni Novanta meritato di finire sul banco degli accusati, perché si sarebbero potuti eliminare, nella fase embrionale, quei fattori che hanno poi condizionato la vita amministrativa del Comune di Sant’Antimo e, probabilmente, di tante altre città confinanti.

In terra di camorra, infatti, niente è più grave dell’impunità assicurata a coloro che si sono macchiati di gravi delitti contro la società e lo Stato. I cittadini di Sant’Antimo sono stati, così, costretti a subire, per decenni, le vessazioni di un sistema affaristico-criminale, che è stato azzerato con l’operazione Antemio, ma soltanto dopo che ha prodotto danni, per certi aspetti, irrimediabili. Emblematica è la vicenda del centro commerciale il Molino. La famiglia Cesaro, sostengono i magistrati, avrebbe tra i soci dell’attività i boss del clan Puca. Società intestata ufficialmente ai fratelli Cesaro, ma partecipata, in forma occulta, dal boss Pasquale Puca, che, pur se detenuto dal 2009, attraverso i suoi rappresentanti ha gestito direttamente le attività economiche. Al riguardo, è opportuno ricordare che l’amministrazione dell’ex sindaco Arcangelo Cappuccio, nel 1996, provò con la redazione di un nuovo piano regolatore a rimediare alle principali previsioni fallite del Prg del 1973: le zone di nuova espansione erano state, infatti, edificate al di fuori di ogni controllo, il centro storico abbandonato al degrado, la zona industriale mai decollata.
Il Prg redatto dal professore Alessandro Dal Piaz prevedeva, invece, la tutela e il rilancio del centro storico e della zona industriale, mentre per l’area dove sorge l’attuale centro commerciale Il Molino era prevista una zona da destinare ad archeologia industriale per un polo culturale e museale. Quel che è successo dopo è storia. L’allora sindaco Cappuccio fu mandato a casa nel 1997 a seguito delle dimissioni della maggioranza dei consiglieri comunali davanti a un notaio e durante la successiva amministrazione, guidata dal sindaco Luigi Vergara di Forza Italia, nel 1999 il piano regolatore di Del Piaz, pur pagato dai commissari che avevano retto il Comune nel 1998, non venne mai approvato. In alcuni manifesti il partito dei Democratici accusò l’amministrazione Vergara, con il consociativismo di una parte dei consiglieri di centrosinistra, di aver affossato il piano regolatore per favorire il partito del cemento a Sant’Antimo. In seguito, fu redatto un altro piano regolatore dall’architetto Uberto Siola, anche questo pagato dal Comune, ma mai attuato. Durante la consiliatura del sindaco Luigi Cesaro, con delibera di Consiglio comunale del gennaio 2006, venne definitivamente affossato l’ultimo ed estremo tentativo di pianificazione del territorio di Sant’Antimo. Da quel momento in poi, la città è diventata la patria del mattone selvaggio.
La camorra santantimese, nel frattempo, grazie al “sistema” architettato, ha continuato a collezionare affari d’oro, in assenza di uno strumento urbanistico in grado di garantire la pianificazione armoniosa del territorio. Ed è in questo contesto, così maturato, che la Dda di Napoli ha inquadrato l’affare del centro commerciale Il Molino. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, nel 2002, il boss Pasquale Puca, attraverso la ditta di un imprenditore edile, si aggiudicò all’asta fallimentare il terreno e la proprietà della struttura fatiscente dell’ex Molino Improta. Il boss Puca comprò il bene all’asta in quanto voleva realizzare un’ingente speculazione edilizia. Dopo vari tentativi andati a vuoto, Puca avrebbe deciso di proporre ai fratelli Cesaro, Aniello e Raffaele, di comprare l’immobile con il patto di dividere i costi per realizzare un centro commerciale.

Questa vicenda dimostra come la camorra abbia, da sempre, avuto interesse a indirizzare le scelte dell’Ente verso i propri affari illeciti. Strategico, a tal fine, si è rivelato il controllo dell’ufficio tecnico per assegnare lavori pubblici alle ditte riconducibili al clan Puca, nonché per rilasciare autorizzazioni e concessioni edilizie soprattutto in favore di imprenditori e costruttori orbitanti attorno ai clan locali. Secondo la Dda, la figura individuata per raggiungere tale scopo sarebbe stata quella dell’ingegnere Claudio Valentino (responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Sant’Antimo, attualmente agli arresti e già a processo per il sacco edilizio di Orta di Atella, alla corte dell’ex sindaco Angelo Brancaccio), con il quale i clan si sarebbero interfacciati attraverso diversi referenti politici, come gli ex presidenti del Consiglio comunale Vincenzo D’Aponte e Francesco Di Lorenzo o come l’ex consigliere Nello Cappuccio (già condannato in primo grado a quattro anni per minacce a un dipendente comunale che non avrebbe voluto favorire il figlio del boss Puca). Il pentito Claudio Lamino lo ha definito il “sistema Valentino” che funziona, più o meno, così: i clan hanno necessità di riciclare nel mattone, e si servono di imprenditori compiacenti, per i grossi flussi di denaro. E, secondo chi indaga, sarebbe stato l’ingegnere Valentino, in cambio di tangenti, a decidere quali ditte dovessero lavorare, quali avere il condono e chi dovesse essere bloccato.

Si sarebbero realizzate, attraverso questo sistema, maxi speculazioni con palazzine costruite nel nulla, vicino ai tralicci delle antenne telefoniche, con strade dissestate e disseminate di rifiuti. A pochi metri di distanza, in alcune zone del Comune di Sant’Antimo, è possibile trovare oggi case iniziate e non finite, capannoni abbandonati con i tetti di amianto, scuole, megastore, uffici, fabbriche con strade e servizi degni delle favelas colombiane. In cambio di denaro l’ingegnere Valentino, inoltre, avrebbe rilsciato permessi a costruire illegittimi per la costruzione di case coloniche, che in realtà sono ville di lusso in pieno centro cittadino. Come sarebbe avvenuto anche nel caso del permesso a costruire rilasciato alla figlia del consigliere comunale Francesco Di Lorenzo.
Nelle intercettazioni sono finite anche le opere pubbliche assegnate in cambio di tangenti a ditte riconducibili a imprese legate ai politici o direttamente ai clan locali. Le dinamiche del “sistema” legate a questi appalti sono alla base dello scioglimento per infiltrazioni camorristiche del Comune di Sant’Antimo a marzo 2020. I lavori venivano eseguiti dalle ditte in difformità rispetto ai capitolati di appalto, con subappalti non autorizzati, senza rispetto per le norme relative alla sicurezza dei lavoratori sui cantieri, potendo così massimizzare i profitti e recuperando le somme versate a titolo di tangenti o di pizzo agli uomini del clan. Il risultato è rappresentato da opere pubbliche incompiute o realizzate in maniera scadente che, anziché riqualificare il territorio, lo hanno ulteriormente imbruttito. Un sistema che i clan hanno cercato, attraverso i loro referenti politici, di estendere anche nei comuni limitrofi, come per esempio Melito.
Il “sistema” messo in piedi dalla camorra sembra essere dappertutto, a Sant’Antimo è diventato parte integrante della vita e della politica, controllando anche il voto. Nel 2006, ci fu la famosa fuga dai seggi con la rinuncia di ben ventiquattro presidenti di seggio sui trenta designati. L’allora candidato sindaco Domenico De Biase già denunciò pubblicamente l’oscena pratica della compravendita dei voti. Sotto la lente delle autorità giudiziarie sono finite, ora, le elezioni del 2012 e del 2017. Inquinamento del voto, summit tra camorristi e politici, preferenze comprate per 50 euro al primo turno e per 25 euro al ballottaggio. Le amministrative del 2017 a Sant’Antimo furono, però, segnate da un colpo di scena clamoroso: allora scoppiò il caos mediatico sulla compravendita dei voti. La coalizione del candidato dei Cesaro, Corrado Chiariello, al primo turno ottenne il 48,58 per cento dei voti contro il 32,51 del candidato di centrosinistra, Aurelio Russo. Al ballottaggio Russo sconfisse, però, Chiariello e dalle intercettazioni emerge tra i candidati dello schieramento di centrodestra un dubbio: i Cesaro avrebbero mollato all’improvviso la campagna elettorale, perché Aniello e Raffaele Cesaro erano stati arrestati per la vicenda del Pip di Marano e la circostanza avrebbe determinato Luigi Cesaro a condurre la contesa elettorale senza grandi velleità e con la principale preoccupazione di non disvelare il suo diretto coinvolgimento negli accordi presi con Di Lorenzo unitamente al suo entourage criminale.
Nel 2017 si è insediata, così, l’amministrazione di centrosinistra, dopo decenni di amministrazioni di Forza Italia. Ma per il neoeletto sindaco le cose si sono messe subito male. L’operazione Omphalos della Dda di Napoli ha portato all’arresto del contabile del clan Puca, il commercialista Antimo Castiglione. La figlia, appena eletta consigliera comunale a sostegno del sindaco Russo, si è dimessa. I clan, nel frattempo, erano tornati alla carica ancora più agguerriti, picchiando e minacciando i dirigenti comunali scelti dal neoeletto sindaco alla guida dell’ufficio urbanistica. Tutta questa violenza per difendere il “sistema Valentino”. Messaggi e azioni violente che verrebbero ricondotte a Francesco Di Lorenzo, Antimo Puca, Giuseppe Di Domenico, Nello Cappuccio, ritenuti responsabili di un’escalation di intimidazioni: come le bastonate alla schiena inferte al geometra Santo Maisto, costretto a rinunciare all’incarico pubblico nel settore urbanistica; come la minaccia fatta per lo stesso motivo al geometra Giuseppe Carola, fino ad arrivare al messaggio consegnato al citofono alla madre di Anna Cavaliere, nominata responsabile dell’ufficio urbanistica dalla giunta Russo, dopo le elezioni del 2017: “Signora, date un consiglio buono a vostra figlia e ditele di non tornare più a Sant’Antimo, altrimenti le diamo due botte dietro”.

I referenti politici dei clan locali non accettarono l’esito del voto e per questo avrebbero cominciato a fare pressioni soprattutto su quei consiglieri comunali, che, direttamente o attraverso parenti, avevano sostenuto in passato le amministrazioni di centrodestra, affinché l’amministrazione di Aurelio Russo venisse mandata a casa. Ciò non sembrò essere sufficiente e, a quel punto, sarebbe intervenuta la camorra. Una bomba carta fu posizionata sotto la casa della consigliera Giusy Ferriero, mentre una altra venne piazzata nei pressi di alcuni appartamenti di proprietà di parenti del consigliere Giuseppe Dell’Omo, che si dimise poco prima della fine della consiliatura. Il consigliere Ferdinando Pedata, agli arresti, sarebbe passato dalla maggioranza all’opposizione a seguito del pagamento di una somma di denaro pari a seimila euro, in base a un accordo tra gli ex consiglieri Di Lorenzo e Chiariello. Per preservare o meno gli equilibri dell’amministrazione dell’ex sindaco Russo divennero fondamentali gli affari sulla gestione del servizio dei rifiuti e sulla speculazione edilizia dell’area conosciuta come ex distilleria Palma. Ma a preoccupare di più sarebbe stata la sorte del progetto di riqualificazione di alcune aree comunali da destinare a parcheggi sotterranei. Un affare da diversi milioni di euro sul quale la politica collusa e i colletti bianchi locali misero le mani.
Il sindaco Aurelio Russo, in un primo momento, sospese i lavori; successivamente varò un progetto diverso e così i lavori ripresero. A oggi, però, molte delle opere previste dal progetto, come il polo culturale o il parcheggio a via Colasanto, non sono state realizzate. Altre zone come il parcheggio nei pressi del Comune di Sant’Antimo o la villetta comunale di piazzetta Cavour sono già da riqualificare e deturpate dalla presenza di ecostand mai portati a termine. Si è arrivati, così, alla sfiducia, nel luglio del 2019, nei confronti sindaco Russo. A firmarla, insieme al capo dell’opposizione Corrado Chiariello (agli arresti domiciliari), anche l’ex presidente del Consiglio comunale della giunta Russo, Salvatore Castiglione (indagato in quanto ritenuto vicino al clan Puca). Proprio lui, che passando dallo schieramento di centrodestra a quello di centrosinistra, aveva determinato la vittoria di Russo. Tutti i consiglieri di Forza Italia sono finiti agli arresti, in carcere o ai domiciliari. Con loro, risultano coinvolti a vario titolo anche i consiglieri Corrado Chiariello, Ferdinando Pedata, Carmine Petito, Salvatore Castiglione e Gaetano Golino, marito dell’assessore alla igiene urbana, Ivana Tarantino.
La triade commissariale che regge il Comune di Sant’Antimo a seguito dello scioglimento per camorra, per contrastare il “sistema”, ha già predisposto l’annullamento del bando per l’affidamento del servizio di igiene urbana e ha fatto, inoltre, ricorso ai poteri che le sono riconosciti dallo Stato per verificare eventuali infiltrazioni della criminalità organizzata nell’appalto per i lavori alla scuola media Giovanni XXIII affidati alla ditta Edilmed, (i cui titolari sono parenti del consigliere comunale Francesco Di Lorenzo) che ha già realizzato in subappalto i lavori del progetto Jessica con delle modalità oggetto di attenzione da parte della Dda di Napoli. Impressionanti le cifre per le tangenti che, secondo gli inquirenti, sarebbero state pagate per le assegnazioni dei vari lotti per i lavori a via Solimena, attraverso dei veri e propri accordi criminali, di cui avrebbe beneficiato l’imprenditore Francesco Di Spirito, titolare della ditta Edil Partenopea, aggiudicataria dei lavori per il lotto D per l’importo pari a oltre due milioni di euro. Imprenditore ritenuto dalla Dda di Napoli vicino al clan Puca.

L’operazione della Dda di Napoli ha, anche, riportato sotto i riflettori la tenenza dei carabinieri di Sant’Antimo a seguito dell’arresto di un maresciallo ritenuto vicino ai referenti del sistema politico-criminale del Comune di Sant’Antimo e che, per questo, avrebbe anche aiutato l’ingegnere Claudio Valentino a simulare delle lettere di minaccia in maniera tale da farlo apparire come vittima dei clan locali. Aspetto che ricorda la tragica vicenda del giornalista Mario De Michele, con il quale nelle intercettazioni lo stesso ingegnere Valentino, quando lavorava al Comune di Orta di Atella, interloquiva spesso sulle questioni legate al Puc, finito poi nel decreto di scioglimento del Comune atellano per infiltrazioni camorristiche.
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