Per il quinto appuntamento con i Testimoni di terre campane abbiamo scelto di incontrare un libraio. Lo abbiamo fatto perché di un libraio in una città c’è sempre bisogno, soprattutto di questi tempi. Magari in città ricche di storia, ma che soffrono di un provincialismo, e non solo quello, che non consente un serio e coerente sviluppo culturale. Se poi il libraio è anche un profondo conoscitore delle dinamiche sociali del territorio, allora il cerchio si chiude in maniera perfetta. Forse non basterebbe a Ernesto Rascato una semplice intervista, ma ci proviamo lo stesso, per raccontare un territorio dalla parte del Quarto Stato.
Quanto è difficile essere un libraio nell’era digitale e in una regione che è fra quelle dove si legge di meno?
“Certo parliamo della Campania, ma soprattutto occorre parlare del territorio casertano che ovviamente ha caratteristiche diverse da un aggregato metropolitano di due milioni di persone come Napoli. Abbiamo da sempre seguito la trasformazione delle librerie e del segmento culturale che avvolge e affianca questi luoghi e finora siamo riusciti a tenere la sfida. Ci rendiamo conto, però, che molti fattori hanno influito sul venir meno del fatturato e della fidelizzazione della clientela, dovuti a una situazione generale e complessa. I punti sono diversi e tenterò di accennare solo i più cruciali. L’emigrazione intellettuale. Centinaia di giovani cresciuti in libreria o vicini a noi fanno parte dei cinquantamila giovani emigrati negli ultimi anni. A volte li rivediamo una volta l’anno quando tornano per qualche festa con i parenti. Ed è una fetta consistente delle perdite. La trasformazione dello studio e del processo formativo nelle scuole e nelle università. Docenti e tecnologie hanno sollecitato e portato soprattutto i giovani, che sono la clientela del futuro, a semplificare il lavoro con i computer e le app disdegnando il fondamentale elemento cartaceo. È il risultato di un abbassamento tragico del livello culturale del corpo docente che ha impoverito i discenti con la conseguenza che decine e decine di laureati si gloriano di essersi laureati senza aver comprato un libro. Il libro è un oggetto-merce, deve seguire le regole del mercato come la scuola: il deserto è palpabile. E mi fermo qui”.
Se fosse assessore alla cultura quali iniziative attiverebbe per invogliare, soprattutto i giovani, a leggere di più e meglio?
“Sarò molto sintetico. Se non hai una biblioteca comunale funzionante con risorse possibili e personale competente, non si può fare una programmazione culturale e pianificare attività che creino condizioni di sedimentazione di interesse utile ad allargare una platea giovanile che oggi è presa solo dall’effimero. Seconda condizione, è un rapporto reale e non burocratico o solo istituzionale con scuole e università. Ma qui entriamo nelle volontà e non solo capacità di dirigenti o docenti, che oggi come oggi leggono solo numeri e bilanci, iscrizioni e concorrenza come tra aziende. Quindi parliamo di necessità di reimpostare il mondo della cultura e della formazione radicalmente”.
Perché non si riesce a superare la diseguaglianza, ancora più presente in una regione come la Campania, per cui la stragrande maggioranza degli studenti dei licei viene da un preciso contesto sociale, mentre la totalità di quelli che frequentano gli istituti tecnici o professionali proviene da altri?
“L’istituzione centrale, cioè i governi, e quelle territoriali non hanno mai perseguito una seria programmazione culturale. Gli eventi da loro promossi sono spesso passerelle saltuarie o strumentali. Una società qui nel Sud, ma anche al Nord più occultato, che accresce le disuguaglianze, impoverisce il suo stesso ceto medio, e riproduce nella sostanza differenze tra notabilato e subalterni cento anni dopo la Questione meridionale di Antonio Gramsci e le indagini di Ernesto De Martino. È inevitabile che il flusso studentesco verso alcuni istituti anziché altri e l’accesso all’università ripropongano le divisioni sociali. Del resto era un punto fermo della riforma Gentile durante il fascismo messa in discussione dai movimenti negli anni Sessanta con le conseguenti vittorie sociali. Un welfare più disposto a usare risorse per la formazione di donne e uomini prima che operai, tecnici o professionisti. Oggi, molto più di prima, le ‘carriere’ professionali sono di famiglia”.
Quanto e come la globalizzazione ha influito in un territorio come quello campano alle prese con ataviche difficoltà?
“La globalizzazione o ‘mondializzazione’ è un fenomeno che non si può analizzare in poche righe e riportarlo su di un territorio come il nostro che ha ancora caratteristiche ottocentesche nella cultura, negli atteggiamenti e, come detto prima, nelle scale sociali. Ma di sicuro lo ha fatto nella sostanza. Anche qui viene riportato il Novecento, il mercato, la concorrenza, la guerra e le carestie con conseguenti emigrazioni di masse di diseredati e non imponendo la diversità del pensiero occidentale apprezzato solo nel folklore. Il mondo del libro era già internazionale o mondializzato, oltre tutte le censure da tempo. Case editrici come Einaudi stampavano autori americani quando questi erano quasi messi all’indice in pieno fascismo. Oggi è tutto più accelerato e con una potenzialità maggiore. Ciò è positivo, ma a volte va a discapito della qualità”.
Le vertenze Jabil e Whirlpool hanno avuto una forte risonanza a livello nazionale. Lei cosa ne pensa degli accordi che, apparentemente o per il momento, le hanno risolte?
“Dal campo letterario passiamo a un campo che mi appassiona dal lontano 1968: l’avvenuta industrializzazione che io ho seguito con l’insediamento Indesit dai primi mesi, insediamento forzato e per niente rispondente alle caratteristiche ed esigenze del territorio se non quelle del lavoro, data la saturazione delle piazze del Nord. Ottimo spunto di ricerca è il testo appena uscito di Paola Broccoli, La modernizzazione di Terra di Lavoro (1957/73), che affronta questa problematica. Le due vertenze di cui mi si domanda sono figlie di quel momento. Sono residui industriali di aggregati produttivi precedenti che pagano la deindustrializzazione dovuta alla delocalizzazione. L’investitore privato avendo a cuore il profitto e non una scelta sociale per le comunità, decide ad esempio che a Bucarest o in Polonia la manodopera è più flessibile e costa meno. Alla Jabil e alla Whirlpool hanno allungato solo i tempi, provvedimenti tampone senza ‘tamponi’ potremmo dire. Oggi in Campania le sole unità produttive sono quelle sofisticate che in massima parte sono produzione per il settore militare, come Avio e Leonardo. La sola cosa che potrebbe essere decisiva sarebbe la nazionalizzazione e la riconversione di quello che ci resta. Certo è una bestemmia per chi non ha mai socializzato gli utili ma solo le perdite con rifinanziamenti statali a getto continuo. Ma questo è un atto di coraggio politico che non penso possa essere impugnato dall’attuale classe dirigente”.
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