Si chiamano new jersey, sono in plastica e vengono di solito utilizzati per costruire barriere stradali e regolare il traffico durante i cantieri. A Orta di Atella non c’è nessun lavoro in corso e non potrebbe neanche esserci. Da troppo tempo questa città al confine tra le province di Caserta e di Napoli vive in un limbo, abbandonata a se stessa: crescita urbanistica e demografica senza controllo e servizi pari a zero. Non c’è neppure un sindaco, dopo lo scioglimento anticipato per le infiltrazioni criminali. Eppure, da ieri mattina, in ogni angolo del perimetro cittadino sono comparsi i new jersey, questi strani oggetti rossi e bianchi, posizionati in diverse arterie minori per chiudere fisicamente gli abitanti del luogo nel loro recinto. Ciò è conseguenza del provvedimento della Regione Campania di istituire la zona rossa, una restrizione estrema poiché negli ultimi tempi in questa terra il Covid-19 ha deciso di attecchire in maniera prepotente: si è registrato, infatti, l’800 per cento in più di contagiati in pochi giorni.
La mia abitazione affaccia sull’ex provinciale Caivano-Aversa, ma è sul lato sbagliato. Con la mia casa termina il territorio del Casertano, di fronte, divisa dalla strada, comincia la provincia di Napoli. A naso, dovrebbero essere una decina di metri quelli che separano le due circoscrizioni amministrative, ma io sono prigioniero nel mio steccato, mentre il mio dirimpettaio “napoletano”, con il quale mi saluto dal balcone, è libero di uscire e spostarsi come desidera. Non è mai semplice interpretare i provvedimenti delle istituzioni, spesso presentano incongruenze e anomalie, ma questa volta è davvero difficile trovare una logica. La speranza è che il Coronavirus riconosca e possa avere timore del gesto autoritario della Regione Campania, non oltrepassando i new jersey ed evitando di entrare nel territorio del Napoletano, invadendo la confinante Frattaminore.
Non è ironia la mia, non ho molta voglia di scherzare. Stavo scrivendo ieri pomeriggio quando ho sentito i rumori entrare dalla mia finestra. Mi sono affacciato e ho visto alcuni operai che piazzavano nella stradina adiacente la mia abitazione, che immette sull’ex provinciale, la barriera in plastica, riempiendo d’acqua i new jersey. Non nego che un senso di angoscia mi ha spinto a scendere in strada per chiedere spiegazioni. “Eseguiamo un ordine, siamo anche noi di Orta di Atella e ci piange il cuore fare tutto ciò, ma c’è il pericolo che le persone non rispettino le restrizioni”. Queste le parole dell’operaio incaricato di recintare la sua città. Solo in quel momento, anche se ne avevo scritto appena c’era stata la firma dell’ordinanza, mi sono reso conto che sto vivendo in una zona rossa.
Una presa di coscienza choccante. Nel mio lavoro, a volte, il distacco dalla realtà che si racconta è un’autodifesa, per evitare scossoni psicologici e, probabilmente, anche questa volta, inconsciamente, era accaduto ciò. Vedere con i miei occhi di essere barrato fisicamente in casa mi ha riportato alla realtà. Ora so che la zona rossa fa più paura del lockdown generalizzato, mette inquietudine, ti fa sentire solo, fuori dal mondo, perché sai che a pochi metri da te la vita continua in maniera diversa da quella a cui ti hanno costretto, contro la tua volontà. Forse le istituzioni hanno preso la decisione giusta nel chiudere alcune città, come Orta di Atella, dove la percentuale dei contagiati è cresciuta in maniera esponenziale, ma mi resta il dubbio sulle troppe falle nel sistema di gestione della pandemia, sulle evidenti contraddizioni, che mi fanno mal digerire questa forzata restrizione della mia libertà.
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