Avevamo incontrato Gianni Maddaloni nel maggio scorso, quando era appena partita la cosiddetta fase 2, con la graduale ripresa delle attività, e, allora, appariva lontana la fase 3, il ritorno del virus su larga scala. Ora lo ritroviamo con la sua palestra chiusa dall’ultimo Dpcm, nel quartiere di Scampia, dove insegnare judo significa anche indicare la strada giusta a chi rischia di sbandare paurosamente nella vita. Un cammino ripreso a fatica in quella primavera di speranza e di nuovo interrotto nel grigio autunno del Coronavirus.
Gianni, ora che la palestra è chiusa che succede?
“È una situazione che mi rattrista molto. La palestra è piena di cibo, con 200 buste della spesa che ieri non abbiamo potuto distribuire. C’è il rischio di assembramento e abbiamo bisogno, quindi, dell’autorizzazione da parte delle forze dell’ordine. Contatterò i carabinieri, perché siamo quasi in lockdown e queste cose bisogna farle con ordine, rispettando il distanziamento. Inoltre, sono stati mandati indietro, cioè sono ritornati in carcere, undici detenuti a noi affidati dai servizi sociali. È una catastrofe sociale, che rischia di sfociare nell’illegalità. In più, abbiamo i ragazzi che si allenano in maniera agonistica i quali, naturalmente, non potranno continuare la loro preparazione. L’unica eccezione è un ragazzo, Antonio Bottone, che deve fare gli europei junior in Croazia, dal 4 al 6 novembre”.
In questi mesi di apertura, dalla primavera in poi, come si è svolta l’attività sportiva?
“Abbiamo avuto una presenza di quasi il 60 per cento dei ragazzi, rispetto al periodo pre-lockdown. Se prima c’erano circa 600 persone che vivevano la palestra, in questi mesi di riapertura ne abbiamo avuti al massimo 330, insomma più della metà. Questo è stato possibile anche grazie alla Regione Campania, il cui aiuto ha permesso ai ragazzi di non pagare la retta per un anno. Abbiamo lavorato, quindi, con tranquillità. Ad esempio, ad agosto, abbiamo fatto qualcosa di importante, organizzando per i bambini un campo estivo di quindici giorni, tutto gratuito. Significa che la palestra ha funzionato bene. Ecco perché la chiusura è stata una batosta. Ora i ragazzi rischiano di essere presi di mira dalla criminalità, che è sempre in agguato, pronta a reclutarli”.

Per un quartiere come Scampia cosa vuol dire, dal punto di vista del sociale, avere la palestra chiusa?
“È un grosso danno, perché i ragazzi hanno dei punti riferimento, come i campioni di judo che si allenano. Ma non solo: tenga presente che loro vivono la palestra anche oltre l’orario di allenamento. Dopo aver terminato con il judo, giocano nel cortile a ping-pong o a calcio balilla. Insomma, in palestra c’è la stessa atmosfera dell’oratorio degli anni Sessanta e Settanta. Questo funziona molto da deterrente e le mamme sono tranquille, tanto da venire a prendere i ragazzi la sera. Quindi, adesso bisogna stare attenti, con questa situazione che si è venuta a creare. Per tenerli occupati vorremmo pubblicare dei video degli allenamenti, così perlomeno eseguono dei circuiti muscolari e tecnici da casa. Fortunatamente la tecnologia ci viene in aiuto”.
Gianni, ha mai pensato di mollare, di lasciare tutto per queste e altre difficoltà che le sono capitate?
“Io non mollo mai, anzi questa situazione mi provoca e stimola. C’è bisogno, però, di coraggio, anche da parte delle istituzioni. Non è possibile chiudere una palestra di judo, quando ci sono altre situazioni pericolose come la metropolitana o gli autobus pieni, perché non c’è un controllo. Secondo me bisogna guardare in faccia la realtà, convivere con questo virus e darci tutti una regolata. Più che un aiuto alle istituzioni chiedo di poter lavorare, di stare aperto con le dovute precauzioni: mi basta quel 60 per cento di ragazzi ritornati in palestra in questi mesi di riapertura”.
(Le foto sono di Irene Angelino)
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