Un ritorno inatteso, che arriva alla fine di un lungo periodo funestato da innumerevoli problemi di salute. “Jazz donne fragole & ombrelli“, il nuovo album di Pino D’Angiò, già disponibile online, segna per l’artista campano una tappa particolare della propria carriera, che aggiunge un nuovo capitolo dopo dieci anni di silenzio, periodo in cui sei operazioni per un cancro alla gola, un tumore polmonare, un sarcoma, un infarto e un arresto cardiaco sembravano aver messo fine alla sua attività. Questa nuova fatica in studio rappresenta, quindi, un grido di libertà a 360 gradi, un riscatto inaspettato e dai toni dissacranti, da sempre marchio di fabbrica distintivo dell’artista.
Cosa vuol dire tornare a comporre e pubblicare musica dopo un percorso difficile come il suo?
“Dieci anni di sciopero generale non sono uno scherzo nei confronti del pubblico. È stata una possibilità insperata: non avevo più voce, avevo tastiere, chitarre, potevo andare in studio e continuare a lavorare ma, pensando di non poter mai più parlare, credevo di poterlo fare solo per me stesso. Poi a un certo punto ho iniziato a recuperare un po’ di voce, a stare meglio, e quindi, piano piano, sono riuscito a recuperare un po’ di abilità canora”.
Ha definito quest’album un disco di “jazz buffo”, perché?
“La gente ha del jazz ha un’idea molto sbagliata, e non per colpa sua. È diventato un genere molto complicato ed elitario, con tremila sottocategorie, non si capisce nulla, quelle che propongo sono canzoni di jazz ‘potabile‘, cantabile: non c’è la solita cassa in quattro della discomusic, ma è musica fruibile”.
In passato si è cimentato in generi musicali molto diversi tra loro, come mai in questo caso ha scelto il jazz?
“L’idea è venuta in maniera naturale, per divertimento, quando sei da solo non puoi comporre rap, perché il rap non si compone, produci una base e ci starnazzi sopra. Non suoni un fico secco o quasi, crei quattro battute e le ripeti in loop. Oggi fare rap cosa vuol dire? Non vuol dire niente, anzi, dato che per fare rap non c’è bisogno di conoscere la musica o essere intonati, allora chi non sa suonare, chi non sa comporre, chi non sa cantare è perfetto per fare il rap. Dato che io non faccio parte di questa categoria non voglio più farlo, lo facciano gli altri”.
Ci sono brani a cui è particolarmente affezionato?
“Ci sono due pezzi che io adoro: uno è Non lo so chi è: la storia scherzosa della negazione assoluta, di quando una donna ti sorprende a letto con un’altra, e uno inizia a negare sempre, all’infinito. La seconda è Il domatore, inteso nel senso di domare il mondo femminile, dato che le donne sono delle belve e c’è bisogno del domatore. Ovviamente, il mio è un approccio totalmente leggero e autoironico: faccio dischi per sorridere e penso sia necessario, dato che oggigiorno piangono tutti quanti: ‘Ci siamo lasciati, mi hai tradito, che dolore’. Voglio evitare la retorica, è più forte di me, loro parlano di drammi e io faccio dischi in modo che la gente possa rilassarsi un attimo”.
Un disco dai toni politicamente scorretti. Vede il “politically correct” come un limite per l’arte?
“Sì, è diventata una barzelletta. Il concetto è questo: secondo lei Rino Gaetano era politicamente corretto? No. Lucio Battisti? Neanche, era ‘scorretto’ anche musicalmente, quello che produceva era sbagliato dal punto di vista dei canoni musicali dell’epoca. Il politicamente corretto è quello che la gente digerisce facilmente, come Maria De Filippi o X Factor. Ma secondo lei un Rino Gaetano, un Lucio Battisti potrebbero mai partecipare a un talent? Loro erano artisti di rottura, innovatori, ma se sei politicamente corretto sei per forza uguale a tutti gli altri. Una mente creativa non può essere limitata dal politicamente corretto: l’innovazione non può essere smussata”.
Nel corso della sua carriera ha attraversato epoche e generi, musicalmente parlando. C’è qualche artista che l’ha colpita ultimamente?
“Ci sono tanti di quei ragazzi bravi, anche tra i giovani, ma oggi essere bravo è un danno terribile, perché sei sepolto da una colata piroclastica di spazzatura e non riesci a emergere. Basta uno che assembla quattro scemenze con un programmino e fa il cantante. Uno bravo come fa a uscire oggi? Come farsi notare in mezzo a sei milioni di cantanti spazzatura? Oppure ci sono i finti colti, quelli che si atteggiano a intellettuali, ma sono spesso e volentieri un imbroglio, una truffa. Quando vedo queste persone mi sovviene un’espressione di quell’uomo meraviglioso che era Enzo Jannacci: ‘Quelli che ti spiegano le tue idee senza fartele capire’, di questi si tratta”.
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