C’è mancato poco. L’impalcatura faraonica della più grande e antica democrazia del mondo, gravemente provata dai colpi d’ariete di un dissennato populismo manovrato dall’imprenditore impazzito col parrucchino arancione, era sull’orlo dell’abisso. Gli uscieri di Capitol Hill, cancellati tutti i selfie con poliziotti e sovranisti e i post su Telegram su cui avevano raccolto migliaia di like, pentiti, si sono recati, scope alla mano, a nascondere i detriti della democrazia sotto gli enormi accoglienti tappeti del Campidoglio americano. Poi, berretto e divisa d’ordinanza, in ponderata fila, hanno atteso il nuovo inquilino della Casa Bianca, non prima di aver scambiato qualche allusione faceta e sagace sulla fuga repentina di quel cuor di leone che aveva aizzato gli animi del popolo americano per poi scomparire sull’Air Force One. Con la sua degna famiglia di pavidi istigatori, viziati, beoni e fascisti.
Giusto in tempo, l’ultimo schizzo di sangue sul marmo preziosissimo lavato via da mani sapienti, i cerimonieri hanno preso saldamente il comando della scena e iniziato a preparare la cerimonia. Bisogna ammettere che hanno dato il meglio. Forse per necessario contrappasso con le immagini orribili date in pasto alle televisioni del mondo intero, tra poliziotti indifferenti e sovranisti col gusto camp del travestimento estremo (in pochi hanno raccontato del raffinato negligé di pizzo che lo sciamano indossava sotto il pantalaccio da pioniere!), il rito si è consumato in maniera impeccabile e convincente. La sagace regia ha affidato le sorti di una nazione prostrata e mortalmente divisa a un cast stellare di sole donne, a parte il presidente è ben chiaro. “God Bless America“, urlava ogni singolo dettaglio della raffinata messa in scena. La National Mall deserta, affollata delle simboliche duecentomila bandiere in rappresentanza dei cittadini impossibilitati a partecipare alla cerimonia causa pandemia, la presenza di tutti gli ex presidenti, da Bush a Obama a Clinton e Carter (via messaggio), eccetto Abramo Lincoln, che per motivi personali non ha potuto portare il proprio sigillo di sommo statista alla grande festa americana.
Ma siamo certi che egli era lì. Con il suo sguardo, che si levava a dominare prospettive politiche ben al di sopra e al di là degli orizzonti di tutti i suoi conterranei, spaziando oltre i confini degli Stati Uniti sul mondo intero. Sguardo che, è notorio, si spingeva non solo al di là del suo Continente, ma oltre il tempo. Ponderava il futuro e tracciava le direttrici della politica americana per un secolo a venire. Eccone la prova provata, il sommo predecessore aleggiava sull’imponente scalinata dell’insediamento più problematico e avvincente della storia americana. L’anziano avvocato nel vedere la scenografia perfetta e risanata della democrazia a lui tanto cara ha faticato non poco a trattenere le lacrime, che, infatti, sono iniziate a cadere. Timide, hanno imbiancato le chiome dei convenuti di qualche raro fiocco di neve, chiaro presagio di vittoria e di conciliazione nazionale. La fiera Michelle ha preso un fiocco giusto nell’occhio destro e, per dissimulare ha finto un occhiolino al vecchio Bush che ha avuto un fremito di imprevista e dimenticata eccitazione sensuale. “America is Great“, ha sussurrato all’orecchio della consorte un attimo prima che la splendida Kamala, prima donna vice presidente della storia del Paese iniziasse il suo giuramento avvolta in un cappotto viola in omaggio a Shirley Chisholm, la prima donna afroamericana che si era candidata alla Casa Bianca nel 1972, la quale usava quel colore per i volantini della sua campagna elettorale.
Il tempo vola e la diretta televisiva ha i suoi ritmi improrogabili: ecco discendere dalla scalinata che porta al palco un confetto rosa delizioso e leggermente pingue dentro cui, come la ciliegia nel Mon Cherì, si erge piccola ma volitiva Lady Gaga, la più trasgressiva e importante cantante del mondo, la quale intona un inno nazionale con acuti che arrivano al cuore, al cervello e al ventre con onde oceaniche di commozione. Un altro grande tassello della perfetta messa in scena è stato regalato alla memoria collettiva. In Italia come in Francia e in Irlanda, folle di stagionati paladini della democrazia si sciolgono in lacrime compiaciute di commozione. Non è dato sapere se per la perfetta bellezza dell’interpretazione o per la gioia di vedere la diva di origini italiane che celebra il sogno americano. Il guanto immacolato del Lato B più famoso d’America, intanto, precede di una frazione di secondo l’incedere leopardesco della nuova diva che s’esibirà in uno straziante inno alla radice americana: J. Lo. canta This Land is Your Land, inno prestato dalla tradizione della chiesa battista a un ispirato Woody Guthrie: sì, non a caso lo stesso che si faceva ritrarre con la propria chitarra in un’icona immortale sotto cui scriveva This Machine Kills Fascists. “Fottiti parrucchino“, urla il coro a bocca chiusa della nazione che si è ritrovata. Anche questa è fatta! L’olimpico Barack sospira infilando anche il guanto sinistro, sulla mano che il calo improvviso della temperatura ha reso violacea, nonostante i picchi ardenti dell’inno americano affidato alla voce miagolante della Lopez. “Mo’ questa qua chissà in quale paese sperduto dell’America faceva la cameriera“, direbbe la nonna con accenti inconsciamente profetici. Sia come sia, è il momento del pacificatore, anziano, ma che ancora gli ammolla eccome! Inutile dire che il giorno dopo il suo insediamento il vecchio leone firmerà con quattordici stilografiche diverse quattordici decreti in cui abroga completamente le direttive politiche del cuor di leone, mentre in Italia per abrogare i decreti sicurezza ci sono voluti mesi e mesi di discordia e di ansie parlamentari e ancora non ne siamo venuti a capo.
Torniamo alla cerimonia: Il suo discorso è un capolavoro gattopardesco; dopo un incipit geniale, ha snocciolato accenti da orazione funebre a gustosi passaggi barricaderi che potevano essere mutuati dai discorsi di Malcom X o del reverendo King; un perfetto melting pot interculturale a raccontare nuovamente un’America che si guarda allo specchio e si piace. Non sembri un dettaglio che sei vittime innocenti e quattrocentoquattordicimila vittime della pandemia siano state il prezzo di questo incubo americano felicemente conclusosi. La scenografia imponente frutto di secoli di sapiente messa in scena ha appena fatto in tempo a rimettersi il belletto, che di nuovo ha sorpreso il mondo con una magistrale interpretazione dello spirito americano. La cerimonia tocca il suo apice emotivo con l’arrivo sul podio di Amanda Gorman, “Carneade chi era costui?”, una meravigliosa gazzella afroamericana, le treccine rasta a carezzare l’ovale perfetto del capo di pensatrice e poetessa, che dopo aver innocentemente ammesso l’attraversamento di un buio apparentemente senza fondo, il ventre della bestia, “Ogni riferimento al parrucchino arancione è deliberatamente sottinteso, ebbene sì”, snocciola con voce tremante di emozione e di orgoglio americano un folgorante manifesto di gioia pastorale che prende alla gola per capacità empatica e analitico-linguistica. Più volte, la deliziosa poetessa si compiace in giochi di parole raffinati e rivelatori di senso. Al mio colto lettore non saranno ignoti i versi sublimi di Virgilio che principiano le sue bucoliche: “Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui Musam meditaris avena; nos patriae finis et dulcia linquimus arva, nos patriam fugimus…”.
La giovane poetessa con elegante e commovente uso, quasi pittorico, delle parole, tratteggia una Arcadia affatto distante da quella di Virgilio, un passato che è attraversamento e rifugio, ma soprattutto la promessa di una radura, di una sosta pacifica e rappacificata sotto un olivo da cui potremo guardare alle nostre esistenze cogliendone finalmente il senso. “God Bless America“: lacrime. La cerimonia di insediamento del quarantaseiesimo presidente americano è chiusa, ma come nelle costruzioni perfette della narrativa americana ecco il colpo di scena finale. Le telecamere di tutto il mondo seguono il corteo blindato di automobili e guardia nazionale che accompagna Biden alla sua nuova residenza, totali di file di auto nere da film apocalittico, primi piani dei vetri oscurati, un compiacimento voyeuristico dell’atto finale del cambio di guardia quando, davanti ai cancelli della White House, l’anziano politico discende dalla sua auto, si smarca dagli enormi bodyguards e, in sprezzo di ogni pericolo con la famiglia al seguito vestita di colori virginali e pastello, si avvia a piedi verso il palazzo del potere, mentre i codici della valigetta che comanda le armi nucleari, ancora a disposizione di cuor di leon, vengono disattivati. È fatta. “This Land is My Land“, canta il mondo nuovamente innamorato del fantasma della democrazia, la cima della collina da scalare sembra più vicina che mai. Un altro grande spettacolo è stato offerto alle nostre disincantate visioni, tutti i sognatori del mondo per un attimo chiudono gli occhi e sentono il cuore gonfio. Pubblicità e, non dimentichiamolo, speriamo che sia femmina!