Non tragga in inganno il sorriso gioviale dell’annunciatore che sta per introdurci ai misteri dei nuovi Dpcm legislativi. Dietro il sorriso di convenienza c’è il pallore inquietante del cronista consumato dai dubbi e dalle incongruenze. Nemmeno la decennale sapienza della procace e sempre disponibile truccatrice Rai ha potuto del tutto cancellare le ansie e i rovelli interiori che affliggono il bravo cronista mentre legge le nuove norme. Ecco, ci siamo, sta per leggere le nuove regole delle distinzioni in zone colorate del Paese e un mancamento interiore ne fiacca la voce e lo spirito.
Nemmeno quando aveva dovuto leggere le giustificazioni poliziesche alle sevizie inflitte al povero Cucchi il lumio interiore era stato così profondo e opprimente. È lì lì per crollare in un pianto a dirotto o in una sonora risata, quando un’improvvisa revanche di professionismo gli inarca la schiena e il fine dicitore, impassibile, trova nuovo timbro per la voce rotta dalle domande filosofico-esistenziali: “In regione gialla potrò andare a prendere il caffè da mia cugina che non vedo da dieci mesi e, intanto, ha partorito un bel maschietto al quale ha dato il mio nome? In arancione potrò congiungermi col primo venuto? Saranno chiare le differenze tra zone gialle e arancioni?”. E via dicendo…
“Il virus ha ripreso a correre, l’indice Rt è di nuovo sopra l’un per cento, la curva epidemiologica ha ripreso a correre…”: sente la sua voce come proveniente da un punto esterno allo studio di registrazione, la voce è sfaldata dall’eco, sta per cedere a un conato di vomito sul termine “epidemiologico”, poi realizza che non serve conoscere il significato del decreto per ammannirlo a mandrie di telespettatori spaventati e procede senza ansie. Improvvisamente calmo e rappacificato. Pfui! Salvo! Mentre con un raffinato esercizio di controllo del diaframma sta per modulare quietamente la parte finale del comunicato, un imprevisto. Inizia a leggere della misteriosa comparsa delle zone bianche! Ça suffit! Manca poco che lanci i fogli sul tavolino, tolga la cravatta e cominci a urlare come una pazza, in dialetto puteolano. Perché il fine dicitore, ovviamente, è campano e ha pure gusti erotici non ortodossi per così dire. Ma tant’è. La misura è colma. Tanto valeva affrontare il libretto di Mao in cinese o tradotto in docufiction dall’esimio politico prepensionato che s’è dato con successo alla scrittura e alla regia cinematografica. Ma dai!
Nel camerino il giornalista iper-scrupoloso, ha una crisi motivazionale, scrive sei volte una lettera di dimissioni dall’azienda in cui milita da un trentennio, poi si decide per una lettera di insulti al presidente del Consiglio che chiama amichevolmente ‘O fra’, inizia a martellarsi le unghie col premio vinto dieci anni prima a quel festival prestigioso di cui non ricorda il nome. Sfoglia convulsamente gli appunti sul decreto cercando una soluzione ai suoi dubbi angosciosi, brucia il tesserino da giornalista e, infine, chiama la madre chiedendo se può dormire nel suo letto di bambino, solo per quella notte. Dai ma’! Non piange, però, perché non vuole che il bel trucco coli via e riveli il vero sembiante dell’angoscia. L’espressione ebete, apparentemente olimpica, dell’esecutore inerme, ma non inerte, lo sguardo critico della disfatta, il sorriso leonardesco del “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”. È un attimo. Sente il clamore provenire dallo studio, l’inquietudine dei tecnici lo raggiunge come il richiamo della foresta, ha il tempo di osservare le fasi della irreale battaglia nel tempio della democrazia, l’unno distopico che, corna sul capo e col ventre tatuato, viola il Campidoglio americano. Torna in camerino, si ridà il trucco, stavolta aggiunge un tocco di gloss sulle labbra tumide ed è pronto ad affrontare l’anno miracoloso che segue quello innominabile e a leggere senza comprenderli tutti i restanti decreti personali del presidente del Consiglio, che sia questo sostituito o meno dal maledetto toscano…