Soccavo, ritrovato un dipinto “perduto” di Massimo Stanzione
Secondo lo storico dell'arte Giuseppe Porzio la pala d'altare raffigurante la "Madonna di Costantinopoli", di grande valore artistico, sarebbe stata realizzata in piena epoca barocca. Dopo il restauro sarà esposta nelle sale del Museo diocesano di Pozzuoli
La notizia è sicuramente una di quelle che farebbero emozionare qualsiasi amante dell’arte e della cultura: all’interno della parrocchia di Santa Maria delle Grazie a Soccavo, popoloso quartiere della periferia occidentale di Napoli, più precisamente nella cappella dedicata a San Donato, è stato ritrovato un antichissimo dipinto realizzato dal pittore Massimo Stazione, tra i massimi esponenti del Barocco napoletano. La pala d’altare, finora rimasta ignota e custodita nella cappella partenopea nel più totale anonimato, è stata scoperta da Giuseppe Porzio, docente di Storia dell’arte presso l’Università “L’Orientale” di Napoli, il quale ha riconosciuto l’opera dopo un lungo e attento studio commissionato dall’ufficio diocesano per i beni culturali ecclesiastici.
Il dipinto, di incredibile bellezza è pervaso da una dolce tenerezza affettiva tanto da catturare lo sguardo in maniera quasi magnetica, raffigura la Vergine vestita con un elegante manto blu cobalto mentre tiene in braccio il Bambino. Sopra di loro si stagliano leggeri due angeli devoti che sorreggono la corona della Natività. L’immagine sacra è indubbiamente ricca di umanità e di commozione e ricalca, sotto il profilo simbolico, l’iconografia tipica dell’Italia meridionale della cosiddetta Madonna di Costantinopoli, il cui culto si affermò a Napoli a partire dal 1526, anno in cui la città partenopea fu devastata da una terribile epidemia di peste. Tale raffigurazione soave e angelica, infatti, divenne ben presto un simbolo di culto religioso oggetto di forte devozione popolare da contrapporre a tutte le epidemie successive e agli eventi catastrofici che colpirono il Regno di Napoli.
Secondo il noto storico dell’arte il dipinto “ritrovato”, di immenso valore artistico oltre che dal grande fascino mistico e spirituale, sarebbe stato realizzato negli anni di massima espressione artistica di Massimo Stanzione, tra il 1630 e il 1650. Fu in quel periodo infatti che il pittore, dopo aver soggiornato per un lungo periodo di tempo a Roma dove entrò in contatto con i più grandi e influenti artisti dell’epoca, decise di tornare a Napoli, più precisamente nei Campi Flegrei, per collaborare assieme ad Artemisia Gentileschi e a Giovanni Lanfranconella decorazione pittorica della cattedrale di Pozzuoli. Qui realizzò nel 1650 il celeberrimo dipinto San Patroba che predica ai fedeli di Pozzuoli, tela tutt’oggi custodita nel principale luogo di culto puteolano.
Per Giuseppe Porzio l’opera rinvenuta a Soccavo è da attribuire senza alcuna ombra di dubbio al “Cavaliere Massimo”, titolo onorifico con il quale Stanzione venne riconosciuto e apprezzato alla corte del re di Spagna Filippo IV detto “Il Grande”. L’aspetto umano della Madonna di Costantinopoli ha sicuramente giocato a favore dell’attribuzione del dipinto al pittore barocco il quale si è sempre contraddistinto per l’eleganza e la grazia delle forme pittoriche nonché per la soave e dolce naturalezza dei lineamenti, caratteristiche inconfondibili dei soggetti da lui ritratti. Se le Madonne raffigurate da un altro grande pittore suo contemporaneo, Caravaggio, erano in realtà volti di donne comuni provenienti dalla classe popolare, quelle di Stanzione avevano invece i tratti tipici delle donne di classe agiata, appartenenti agli ambienti aristocratici e borghesi dell’epoca. Non è un caso che la critica d’arte Stella Cervasio lo abbia definito, sulle pagine di Repubblica, come l’artista “borghese tra i borghesi”.
Sebbene la tela non sia stata rinvenuta in buon stato di conservazione, in parte scolorita a causa del tempo, la sua elegante bellezza cristallizzata nello sguardo della Vergine non è stata affatto scalfita nei secoli. Si è resa pertanto necessaria la messa in sicurezza dell’opera attraverso l’azione di recupero attuata dai carabinieri del nucleo di Tutela del patrimonio culturale (Tpc) sotto il coordinamento della Soprintendenza dei beni culturali. Il dipinto, intanto, si prepara a ricevere un importante intervento di restauro che permetterà in futuro la sua esposizione al pubblico. L’azione di recupero e di ripristino dell’opera sarà documentata da una pubblicazione scientifica a cura del Dipartimento di Scienze umane e sociali dell’Università “L’Orientale” di Napoli in collaborazione con l’ufficio per i beni culturali ed ecclesiastici della Diocesi di Pozzuoli. Una volta terminato il restauro il dipinto “perduto” verrà esposto al pubblico nel Museo diocesano della città flegrea.
Massimo Stanzione è stato unanimemente riconosciuto dagli storici e dai critici d’arte di tutto il mondo tra i principali autori dell’arte barocca nonché uno dei massimi esponenti della Scuola pittorica napoletana del Seicento. Nato nel 1585 tra l’hinterland partenopeo e l’Agro atellano gli studiosi e i biografi si dividono tutt’oggi nell’attribuire i suoi natali alla città di Frattamaggiore, in provincia di Napoli, o alla vicina Orta di Atella, in provincia di Caserta. Entrambe le città, infatti, si contendono la paternità dell’illustre pittore. Formatosi da giovane presso la bottega del maestro Battistello Caracciolo, nel 1617 decise di trasferirsi da Napoli a Roma. Fu proprio nella città capitolina, fucina di grandi artisti, che il pittore strinse una profonda e duratura amicizia con la celeberrima Artemisia Gentileschi, una delle più famose e influenti pittrici dell’epoca: con lei avviò una proficua collaborazione artistica anche quando nel 1630, entrambi gli artisti, dopo aver trascorso insieme gli anni romani, si trasferirono nuovamente nella città partenopea.
Le opere di Stanzione rappresentano un esempio perfettamente riuscito di sincretismo pittorico che riesce a conciliare e a fondere tra loro il classicismo della Scuola bolognese rappresentata da Guido Reni e dal Domenichino con la profonda rivoluzione artistica intrapresa dal “tenebrismo” di Caravaggio. Fu rivale storico del pittore spagnolo Jusepe De Ribera mentre la potenza del colore racchiusa nelle sue opere e la nuova propensione verso il naturalismo aprirono la strada alle correnti artistiche successive, in particolare a quella Tardo Barocco rappresenta da Francesco Solimena. La sua morte, avvenuta a Napoli nel 1656, si verificò in circostanze poco chiare, forse contagiato dall’epidemia di peste che in quell’anno colpì la capitale del Regno. Secondo il biografo e storico d’arte Bernardo De Dominici la sua salma venne deposta nella basilica dello Spirito Santo a Napoli sebbene i suoi resti non siano mai stati ritrovati, ciò ha contribuito a far crescere attorno all’artista un’aura di leggenda e di mistero.
La produzione artistica di Stanzione fu molto vasta ed eterogenea. Gran parte delle sue opere sono tuttora custodite in diverse chiese di Napoli e della provincia, nel Museo di Capodimonte e nella Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma nonché tra le collezioni dei più prestigiosi enti museali internazionali. Delle sue opere maggiormente apprezzate all’estero e universalmente riconosciute quali capolavoridell’arte barocca vanno menzionati: Ritratto di una donna napoletana, custodito al Fine Arts Museum di San Francisco; Giuditta con la testa di Oloferne, esposto nelle sale del Metropolitan Museum di New York; l’Assunzione della Vergine, custodito nel Museum of Art del Nord Carolina; i cicli pittorici Annunciazione a Zaccaria della nascita del Battista, Sacrificio a Bacco e Decollazione del Battista esposti nel Museo Nacional del Prado di Madrid; Susanna e i vecchioni custodito nelle sale dello Städelsches Kunstinstitut di Francoforte e infine Cleopatra, conservato nel magnifico e imponente Hermitage di San Pietroburgo.
L’incommensurabile genio artistico di Massimo Stanzione non poteva che approdare anche al cinema, celebrato nel film Arca russa del regista Aleksandr Sokurov e presentato al Festival di Cannes. Tanti riferimenti che ci spingono a riflettere su come un artista amato e apprezzato in tutto il mondo, con visitatori provenienti da ogni dove pronti a pagare fior di quattrini per ammirare le sue opere, sia stato quasi dimenticato dalle stesse città che gli hanno dato in natali. Sia Orta di Atella che Frattamaggiore, infatti, non sono mai andate oltre le solite iniziative canoniche, dedicandogli solamente qualche scuola e qualche via, senza mai realizzare nulla di veramente importante che restituisse fama e lustro al genio pittorico di queste terre. Ci sarebbe da chiedersi legittimamente il perché di questa ennesima occasione persa per rilanciare lo sviluppo dell’hinterland partenopeo e la rinascita dell’Agro atellano mettendo al centro l’arte, la storia e la cultura. Se è vero che la bellezza salverà il mondo, come soleva ricordare lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij, allora essa stessa non può che essere l’unico rimedio efficace per sconfiggere quella bruttezza asfissiante e quell’imbarbarimento intollerabile che oggi la fanno da padroni.
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