Avviso ai lettori. Questo articolo è volutamente pieno di enfasi, paroloni, frasi fatte, luoghi comuni, nazionalismo sfrontato e giudizi politicamente scorretti. Quindi, chi vuole proseguire nella lettura non si lamenti. Coloro che, invece, hanno già perso la pazienza per queste prime righe, spero che abbiano qualcosa di meglio da fare, tipo l’amore o guardare i Simpson. Perché qui si parlerà della Partido del siglo, la partita del secolo, come retoricamente scritto sulla targa posta dai messicani allo stadio Azteca. Sia ben chiaro, nessun predicozzo sociologico-politico-intellettuale su quegli anni: il post ‘68, la strategia della tensione, lo spartiacque culturale e generazionale che avrebbe rappresentato il 4-3 più famoso al mondo (con tanto di film, libri, dibattiti e menate varie). Qui si parla semplicemente di calcio. Anzi, della partita di calcio per antonomasia. Perché questa è stata Italia-Germania del 17 giugno 1970. Almeno per noi italiani. Per i tedeschi no. Per i tedeschi si tratta poco più di un incidente di percorso, una scivolata in mezzo al campo a gamba tesa da parte di un avversario mai tenuto in considerazione, un piccolo neo da estirpare con la prossima vittoria. A loro non serve una partita di calcio per sentirsi superiori. D’altronde i mondiali li avrebbero vinti quattro anni dopo, in casa.
Sì, vabbè. Pensate cosa sarebbe successo, se il settimo gol dopo il 3-3 lo avesse segnato quello scugnizzo teutonico dal nome Gerd (Gerhard) e dal cognome Muller (chiamarsi Muller in Germania è come chiamarsi Esposito a Napoli). Il classico centravanti piccoletto e cazzimmoso (chi traduce cazzimmoso in lingua alemanna vince una cena offerta dal soprascritto), sempre pronto a sfruttare gli errori degli avversari, a infilarsi sotto le gambe dei difensori alti il doppio di lui, a zigzagare come uno slalomista fra i paletti e arrivare al traguardo del gol facendoti marameo, con il pollice sulla punta del naso e chiudendo velocemente a pugno le dita. Pensateci. Sarebbe stata per loro la Partido del siglo, anzi la Jahrhundertspiel, e avrebbero preteso che fosse scritta così all’Azteca, tutto attaccato: tre parole dal suono armonioso ridotte a un codice fiscale. E poi via con gli sberleffi, i luoghi comuni contro gli italiani mangiaspaghetti, la Angela Merkel che ad ogni incontro con i capi di Governo italiani, da Berlusconi in poi, oltre a sorridere beffardamente, avrebbe salutato mostrando quattro dita. E non importa se la Germania in semifinale era quella ad Ovest di Paperino e lei è nata dall’altra parte dell’abbattuto muro.
Invece, no. Invece il settimo e decisivo gol, non lo ha segnato la Germania. Lo ha segnato Gianni (Giovanni) Rivera, il golden boy o l’Abatino, come lo chiamava in maniera sarcastica il mitico Gianni Brera, per sottolineare le sue caratteristiche di fine stilista del calcio poco propenso al gioco agonistico-machista dello sport nazional-popolare, il milanista costretto alla democristiana staffetta con l’interista e rivale Sandro (Alessandro) Mazzola. È stato lui, dopo aver preso un sonoro cazziatone dal portiere del Cagliari e prossimo suo compagno di squadra nel Milan Albertosi per non essere stato capace di fermare sulla linea di porta il colpo di testa del suddetto Muller (marameo, un colpo di testa da un piccoletto-cazzimmoso), è stato lui, dicevamo, a sentirsi offeso nel corpo e nell’anima e a dirigersi quindi verso la parte opposta del campo, attendere il cross del ‘Bonimba’ Boninsegna (uno che in Messico non ci doveva neanche stare, arrivato dopo l’infortunio del ‘sicilianuzzu’ Pietro Anastasi) e spiazzare con un piattone destro Sepp (Josef Dieter) Maier, a sua volta colpito da una crisi di nervi dopo aver visto il pallone rotolare in rete. “Vinciamo, vinciamo”, si sente ripetere in sottofondo da un tifoso durante la telecronaca festosa ma non troppo di Nando Martellini. Un noi che fa comunità e cancella in un solo colpo l’imperativo, egocentrico e odioso “Vincere!” di trent’anni prima. Ecco, lo sapevo, ci sono cascato. Il classico predicozzo politico-sociologico a fine dibattito. Intellettuale no, sarebbe troppo.
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