I dati che stanno emergendo negli ultimi giorni non lasciano spazio a speculazioni: il Coronavirus è un’emergenza epidemiologica che ora riguarda da vicino tutti i Paesi occidentali. Anche il primo ministro del Regno Unito Boris Johnson, dopo aver tentato un approccio terribilmente inglese al problema, incitando da Londra la nazione a tirare dritto per la propria strada e rassegnandosi all’eventualità di migliaia di decessi, sta lentamente scendendo a più miti consigli e promuovendo misure di contenimento, per il momento ancora molto blande se paragonate agli altri Paesi europei.
Mentre i dati nazionali, aggiornati alle ore 17 del 22 marzo, parlano di 5.638 casi positivi e 281 decessi, nel corso della quotidiana conferenza stampa Johnson ha annunciato che nel caso i cittadini non rispettassero le misure di sicurezza suggerite del Governo prenderà in considerazione l’idea di una chiusura completa del Paese, un lockdown sul modello italiano e spagnolo. Misure leggere ancora non imposte categoricamente, mentre nel Paese si vedono le stesse alterne dinamiche di panico e noncuranza sorte in Italia dopo i primi casi nel Lodigiano. La negazione dell’emergenza, foraggiata dalle direttive di effettuare tamponi solo dove fosse strettamente necessario, è stata sostanzialmente la linea di Downing Street nelle ultime settimane. Una testimonianza di ciò arriva dall’esperienza personale di Lara Costantini, italiana originaria di Venezia e residente a Londra, che dopo aver riscontrato tutti i sintomi da Covid-19 ha vissuto una vera e propria odissea nel tentativo di accedere a un test che, dopo diverse settimane, non è ancora arrivato.
Quando ha accusato i primi sintomi?
“Verso la fine di febbraio sono partita per Parigi, dovevo stare lì per il week-end, ma il primo giorno ho iniziato ad avvertire sintomi influenzali: brividi di freddo, sudorazione, febbre e tosse. Sentendomi male, il giorno dopo ho deciso di tornare a Londra. Avevo la temperatura a trentotto e mezzo quando sono arrivata in città, ho preso del paracetamolo e non sono andata a lavorare“.
Ha tentato di farsi visitare da un medico?
“Mi sono recata a un pronto soccorso vicino casa mia, ma l’ho trovato chiuso: per via del Coronavirus avevano chiuso quel centro e affisso un avviso con una lista di centri alternativi nei quali recarsi. Sono quindi arrivata nel centro segnalato più vicino e mi sono messa in coda. Davanti a me c’era un ragazzo con la mascherina e i miei stessi sintomi, al quale hanno detto che sarebbe dovuto tornare a casa perché con quei sintomi non sarebbe stato ammesso nella struttura. C’era un cartello su cui si leggeva: ‘Se hai viaggiato nelle zone colpite dal Coronavirus o hai avuto contatti con persone positive e hai sintomi influenzali, stai a casa’. A nulla sono valse le proteste del ragazzo, che asseriva di non essere stato da nessuna parte, di non conoscere gente infetta e di volersi semplicemente far visitare. A lui come a me è stato detto di chiamare l’111, il numero di emergenza del sistema sanitario pubblico che era stato allestito con una linea speciale per gestire i casi sospetti di Covid-19. Tornata a casa ho chiamato al numero. I tempi di attesa sono lunghissimi, di almeno 40 minuti. Quando finalmente ho ricevuto risposta, ho spiegato la situazione e mi hanno passato un altro operatore, il quale mi ha detto semplicemente di continuare a prendere il paracetamolo e di stare a casa“.
Non le hanno proposto di fare un test?
“Ho chiesto io stessa del test e mi hanno detto di no: dovevo isolarmi a casa finché non mi fosse passato. Il giorno dopo ho chiamato un medico per ricevere una visita a distanza, perché nessuno voleva visitarmi dato che i miei sintomi erano gli stessi del Coronavirus, e anche lui mi ha confermato di continuare ad assumere il paracetamolo e che, nonostante i sintomi, non mi avrebbero fatto il test perché non ero stata in una zona a rischio“.
Come s’è evoluto il suo stato di salute da quel momento in poi?
“A un certo punto mi sono sentita meglio, avevo solo molta tosse e continuavo ad avere un po’ di acciacchi e a provare un generale senso di debolezza, motivo per cui nonostante l’assenza di febbre mi sono trattenuta qualche giorno in più a casa. Una scelta fortunata, dato che la febbre mi è risalita improvvisamente dopo due giorni, arrivando a trentanove e mezzo. Dopo aver passato una notte bruttissima, essendo molto preoccupata ho deciso di chiamare un medico privato che venisse a visitarmi. Qui nel Regno Unito i medici privati sono estremamente costosi, non li si chiama spesso. Il medico privato mi ha sostanzialmente confermato il responso ricevuto per telefono: prendere le medicine e stare a casa. Ho chiesto nuovamente di essere sottoposta al test e ho fatto notare che lavoravo in una scuola, sono a stretto contatto con molte persone tutti i giorni e che, giustamente, nel mio ambiente di lavoro fossero preoccupati per la situazione, dato che nel caso avrebbero dovuto chiudere l’istituto, disinfettarlo e mettere tutti in quarantena. Il medico mi ha letteralmente riso in faccia, dicendomi come tutte le persone che lo avevano chiamato quella settimana fossero preoccupate e volessero fare il test, ma che il test non avesse senso farlo poiché nessuno di noi era stato nelle zone a rischio. Nel caso la febbre non fosse passata entro due giorni mi ha suggerito di andare in ospedale. Io però pensavo che se fossi andata in ospedale mi avrebbero mandata a casa per via dei sintomi del virus: mi sentivo intrappolata in questo meccanismo senza uscita“.
La situazione, nei giorni successivi, non è cambiata?
“La mattina seguente alla visita, mi sono svegliata con la temperatura di 40.1. Mi sentivo estremamente debole, tanto che faticavo a prendere il telefono in mano. Ho chiamato l’111 e, dopo la solita lunga attesa, mi ha risposto un’operatrice che senza battere ciglio mi ha prenotato un appuntamento per il pomeriggio del giorno stesso presso una clinica abbastanza vicina alla mia abitazione, avvertendomi però che avrei dovuto raggiungere la clinica per conto mio. Nel pomeriggio la mia febbre era salita a 40 gradi e mezzo. Non so con che forza sono scesa e ho chiamato un veicolo Uber, scelta obbligata visto che pioveva pure. Raggiunta la clinica, sono stata sottoposta a una visita di 5 minuti, in cui mi sono stati sostanzialmente ascoltati i polmoni. Il medico mi ha quindi diagnosticato una chest infection, un’infezione delle vie respiratorie e mi ha prescritto un antibiotico. Ho quindi camminato, non so come, fino alla più vicina farmacia e successivamente ho preso un taxi per andare a casa“.
Il trattamento ha migliorato la sua condizione?
“La mia febbre dopo due settimane dai primi sintomi era ancora alta, attorno al 38. A quel punto, eravamo al 13 marzo, mio padre tramite il Consolato italiano è riuscito ad avere il contatto di un medico che mi è stato di grande aiuto, dandomi tante informazioni e consigli, e mi ha consigliato di fare assolutamente il test dato che i sintomi parlavano abbastanza chiaro, indicandomi un ospedale di Londra nel quale lui era sicuro fossero disponibili i tamponi. Mi sono quindi recata, sempre a piedi, presso quest’altro ospedale, e qui ho trovato alcuni avvisi che mi invitavano a non entrare nel pronto soccorso se pensavo di avere il Coronavirus, ma di seguire un percorso speciale indicato da alcuni cartelli. Dopo un lungo percorso, ho raggiunto una porta chiusa con un altro avviso che diceva di non entrare se si fosse stati nei Paesi a rischio e di chiamare un numero telefonico diverso dall’111. Ho chiamato questo nuovo numero e la persona che mi ha risposto, dopo le solite domande sulle mie condizioni, mi ha detto che non si potevano fare più test, che in Inghilterra non era permesso farli a meno che una persona non fosse giunta in ospedale con l’esigenza di essere ricoverata“.
Ha cercato di far valere le sue ragioni?
“Ho sottolineato al mio interlocutore che erano oramai due settimane che non mi passava la febbre e che avevo necessità di testarmi specialmente per il mio lavoro, per capire se ci fosse un rischio per le persone che avevo incrociato a scuola. L’operatore mi ha detto: ‘Che ti interessa se ce l’hai o non ce l’hai? Tanto che hai influenza o il Coronavirus non cambia nulla’. Io ho risposto che mi interessava per la collettività, per essere sicura che i miei colleghi adesso non stessero in quel momento lavorando con il rischio di aver contratto il virus. L’operatore mi ha risposto dicendomi che capiva benissimo le mie motivazioni, ma che le direttive, che cambiavano ogni giorno, in quel momento gli imponessero di agire in questo modo“.
Come s’è conclusa la vicenda?
“Sempre lo stesso giorno, il 13 marzo, a seguito di una richiesta che avevo fatto all’111 per ottenere una consulenza telefonica di uno specialista, ho ricevuto la telefonata di una dottoressa, che mi ha nuovamente visitato a distanza. Anche lei è stata molto gentile e mi ha detto, in sincerità, che pensava che il mio potesse essere un caso da Coronavirus, ma che il giorno prima erano arrivati ordini precisi e non si potevano più fare test. Adesso fortunatamente sto meglio, ma ancora oggi io non so se ho contratto il Coronavirus o meno. Adesso sto cercando un modo per fare ritorno in Italia: nei giorni scorsi ho perso circa mille euro cercando di comprare un biglietto con Alitalia, ma l’unico volo che sia riuscita a prenotare è stato cancellato il giorno successivo. Avevo già predisposto tutto per seguire le regole in maniera rigorosa al mio rientro, avevo anche già trovato una casa dove chiudermi in quarantena da sola. Vorrei tornare nel mio Paese, ma al momento sembra impossibile “.
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