Il principale punto di forza di Hammamet, il nuovo film di Gianni Amelio dedicato al crepuscolo tunisino di Bettino Craxi, risiede certamente nella straordinaria performance attoriale mimetica di un Pierfrancesco Favino che sembra quasi posseduto dallo spirito dell’ex segretario socialista e presidente del Consiglio, per come riesce a “riportarlo in vita” sul grande schermo attraverso un’aderenza totale alla sua fisicità e l’impressionante capacità di calarsi nelle profondità del suo animo stanco e tormentato.
Persino uno spettatore d’eccezione come Ciriaco De Mita, lo storico antagonista democristiano degli anni Ottanta e inizio Novanta, evidenzia l’enormità dell’interpretazione di Favino: “Eccezionale, sembra proprio Craxi – sottolinea in un’intervista a Generoso Picone sul quotidiano Il Mattino di venerdì – quantomeno nel timbro della voce, nei toni, nelle pause, nei modi anche burberi e arroganti ma che mostrano autenticamente la sua sincerità umana”. E, in effetti, l’attore che nei mesi scorsi s’era distinto già nel ruolo di Tommaso Buscetta in un altro film d’autore come Il traditore di Marco Bellocchio, stavolta supera se stesso e si trasforma letteralmente in Craxi non soltanto grazie al notevole trucco prostetico di Andrea Leanza, ma soprattutto puntando su una sensibilità attoriale davvero unica che gli permette di far scintillare gli occhi, muovere le mani, modulare la voce, atteggiare il corpo proprio come se non appartenessero più a lui ma fossero realmente quelli del personaggio.
Paradossalmente, però, tanta stupefacente perizia da parte del protagonista rischia di “mangiarsi” gli altri elementi di un film che, invece, è – seppur imperfetto e diseguale – sfuggente e complesso, misterioso e facilmente fraintendibile, innanzitutto per come Amelio avvicina la figura dell’ultimo Craxi, raccontandone quasi unicamente le fragilità umane senza dare alcun giudizio politico né morale sulla sua figura pubblica e, anzi, mostrando in più momenti anche una sorta di tenerezza nei confronti delle debolezze di un vecchio leone giunto, ormai, al capolinea della sua parabola esistenziale.
Come sempre avviene nel cinema del grande regista di origini calabresi, anche stavolta a essere raccontata è, soprattutto, una storia di padri e di figli, naturali e acquisiti, amati e rinnegati, resa credibile e persino struggente attraverso le figure della “garibaldina” Anita (l’alter ego filmico di Stefania Craxi) interpretata da una magnifica Livia Rossi e del Fausto al quale dà vita Luca Filippi con un approccio recitativo straniato volutamente lontano da quelli di tutti gli altri attori, quasi come se il personaggio del figlio del tesoriere socialista amico di gioventù di Craxi fosse un alieno piovuto da chissà dove fino alla mega-villa di Hammamet.
La scelta di Amelio di non utilizzare mai nessun nome proprio per i suoi personaggi (chiamati “Il presidente”, “L’ospite”, “La moglie” e così via), tranne che nei casi di Anita e Fausto (entrambi nomi di fantasia), è una sorta di dichiarazione d’intenti sulla volontà del regista di muoversi su un piano quasi metafisico, da racconto di fanta-coscienza intimo e doloroso. In Hammamet, infatti, la politica è assente pur essendo incarnata nel riconoscibilissimo corpo senza nome di Craxi-Favino. Ma chi s’aspettava un film-inchiesta e per questo, magari, sarà rimasto deluso provi, piuttosto, a farsene una ragione ricercando il senso più profondo dell’opera nelle citazioni cinéphile disseminate qui e là (da Là dove scende il fiume di Anthony Mann a Secondo amore di Douglas Sirk a Le catene della colpa di Jacques Tourneur) e nell’approccio dolentemente wellesiano (a partire proprio da come – e dove e quando – è raccontato il personaggio principale) di un autore che, ancora una volta, ha rischiato e ha deciso con coraggio di percorrere sentieri poco battuti.
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