L’indimenticabile attore e regista avrebbe compiuto oggi 70 anni, era nato il 19 febbraio 1953. Massimo Troisi, Il “comico dei sentimenti”, il 4 giugno 1994, a soli 41 anni, si congedava maledettamente presto, davvero troppo presto, dalla sua esistenza terrena, lasciando un vuoto che ancora oggi, 29 anni dopo, risulta difficile da colmare.

“La sua comicità gentile, la sua gestualità narrante, il suo cinema di tormenti seri e semiseri non hanno però mai abbandonato l’immaginario collettivo e rimangono ancora oggi un vero e proprio patrimonio emotivo nazionale“. Lo scrive il ministero della Cultura sui suoi canali social, ricordando l’attore e regista. Tantissimi gli omaggi e gli eventi in giro per l’Italia per ricordare l’attore e regista originario di San Giorgio a Cremano, tra cui l’uscita di ‘Laggiù qualcuno mi ama‘, il documentario di Mario Martone appena presentato al 73º Festival Internazionale del Cinema di Berlino”, ricorda il Mic, postando un video dell’artista napoletano tratto dall’Archivio Luce.
“Si… no, mo me lo segno…non vi preoccupate”. Così Massimo Troisi rispondeva al monaco, che gli ricordava che “doveva morire”, in Non ci resta che piangere, commedia che l’attore e regista napoletano girò insieme a Roberto Benigni. A 29 anni dalla prematura scomparsa di Troisi, anche noi della redazione del Il Crivello lo vogliamo ricordare e celebrare con le parole che il suo amico e collega, Roberto, scrisse in occasione della sua morte:
Una poesia di Roberto Benigni. A Massimo Troisi
Non so cosa teneva “dint’a capa”,
intelligente, generoso, scaltro,
per lui non vale il detto che è del Papa,
morto un Troisi non se ne fa un altro.
Morto Troisi muore la segreta
arte di quella dolce tarantella,
ciò che Moravia disse del Poeta
io lo ridico per un Pulcinella.
La gioia di bagnarsi in quel diluvio
di “jamm, o’ saccio, ‘naggia, oilloc, azz!”
era come parlare col Vesuvio, era come ascoltare del buon Jazz.
“Non si capisce”, urlavano sicuri,
“questo Troisi se ne resti al Sud!”
Adesso lo capiscono i canguri,
gli Indiani e i miliardari di Holliwood!
Con lui ho capito tutta la bellezza
di Napoli, la gente, il suo destino,
e non m’ha mai parlato della pizza,
e non m’ha mai suonato il mandolino.
O Massimino io ti tengo in serbo
fra ciò che il mondo dona di più caro,
ha fatto più miracoli il tuo verbo
di quello dell’amato San Gennaro.

Troisi è stato a inizio anni Ottanta, assieme a un altro autore fondamentale come il Salvatore Piscicelli di Immacolata e Concetta e Le occasioni di Rosa, una sorta di padre putativo del nuovo cinema partenopeo e, già nel corso del decennio precedente, aveva iniziato dalle assi scalcagnate dei teatrini di San Giorgio a Cremano – sui quali nacque il sodalizio artistico con Lello Arena ed Enzo Decaro che poi sfociò nel “mitico” trio La Smorfia – quell’opera di svecchiamento e decostruzione di una certa idea di Napoli e della “napoletanità” portata avanti, nello stesso periodo storico pieno di fermenti e rinnovamento, da tanti altri artisti nei loro differenti ambiti espressivi: da Roberto De Simone al Teatro dei mutamenti di Carpentieri e Neiwiller, dalle aperture internazionali del gallerista Lucio Amelio alle operazioni di controcultura cinéphile di Mario Franco con la Cineteca Altro, dalle ricerche di Leo De Berardinis e Perla Peragallo presso la Masseria Sentino di Marigliano fino alle avanguardie artistiche dell’epoca e alle sperimentazioni sonore e culturali di band come gli Showmen o i Napoli Centrale e di musicisti seminali come il primissimo Pino Daniele e gli altri alfieri del cosiddetto Neapolitan Power.
Reduce dai successi televisivi con La Smorfia in celebri e seguitissimi programmi Rai come Non stop e Luna park, Massimo Troisi debuttò sul grande schermo il 5 marzo 1981 come protagonista e regista di Ricomincio da tre, il film-fenomeno che lo inserì di prepotenza tra i nomi di punta del nuovo cinema italiano. Addirittura, dopo l’exploit da 13 miliardi di lire incassati dalla pellicola, autorevoli commentatori parlarono di industria cinematografica nazionale (allora in profonda crisi economica) salvata dal neo-cineasta napoletano, che avrebbe poi confermato le sue doti artistiche anche negli anni successivi, fino alla prematura scomparsa del 1994 appena terminate le riprese dello struggente e poetico Il postino, che lo portò fino alle soglie dell’Oscar. Dopo il pluripremiato esordio, Troisi diresse pochi altri lungometraggi: Scusate il ritardo (1982), l’esilarante Non ci resta che piangere (1984, assieme a Roberto Benigni), Le vie del Signore sono finite (1987), la notevole commedia romantica Pensavo fosse amore invece era un calesse (1991) e – firmato alla regia dall’amico inglese Michael Radford – il citato Il postino (1994). Ma grazie a questi pochi film – e agli altri interpretati per maestri-amici come Ettore Scola, ma anche attraverso le memorabili apparizioni televisive che ne hanno caratterizzato la carriera – ha saputo conquistarsi un posto di assoluto rilievo tra i nomi più significativi della storia del cinema italiano, oltre che tra gli artisti di riferimento della cultura partenopea contemporanea, assurgendo – suo malgrado, data la nota timidezza – a simbolo senza tempo di quella Napoli che ha raccontato con straordinaria sensibilità e sempre ben oltre i luoghi comuni.

Otto anni dopo il trionfo de L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci, nel 1996 Il postino di Michael Radford e Massimo Troisi fu addirittura incluso tra i cinque candidati all’Oscar per il miglior film dell’anno. Purtroppo, però, colui che aveva fortemente voluto quel lavoro, lo aveva interpretato e gli aveva dato l’anima e il corpo non era più lì per godersi l’attenzione dei media e l’ammirazione dei cinefili di tutto il mondo. Troisi, infatti, era morto poche ore dopo la fine delle riprese, portate a termine stremato, con enorme forza di volontà, nonostante l’aggravarsi di quei problemi cardiaci che lo avevano accompagnato fin da ragazzo (senza che la notizia trapelasse mai troppo all’esterno) e che, in quel 1994, ebbero la meglio su di lui. Il film – tratto dal romanzo dello scrittore cileno Antonio Skàrmeta e imperniato sul personaggio, profondamente troisiano, del postino procidano Mario Ruoppolo, che pian piano stringe amicizia col grande poeta Pablo Neruda (Philippe Noiret) durante il suo esilio italiano per motivi politici negli anni Cinquanta – fu presentato in anteprima mondiale alla Mostra di Venezia del 1994, pochi mesi dopo la scomparsa dell’artista napoletano, commuovendo fino alle lacrime la platea del festival. Nei cinema italiani, poi, incassò l’equivalente di 22 milioni di dollari e, dopo la distribuzione negli Stati Uniti nel 1995, un totale di oltre 80 milioni in tutto il mondo, stabilendo il nuovo primato per gli incassi globali di un film italiano.
Sulla scia del notevole successo americano, con prestigiosi quotidiani come Washington Post o New York Times che inneggiarono al film e al suo autore (il primo scrisse “Il Postino rappresenta quel trionfo internazionale che Troisi sperava di avere e che non ha fatto in tempo a godersi”, il secondo “Troisi dà al suo personaggio una verità e una semplicità che significa tutto”), l’opera riuscì a ottenere ben cinque candidature per gli Academy Awards 1996, nonostante l’indubbio svantaggio di non potersi giovare della presenza del suo mattatore nelle interminabili tournée promozionali che sono spesso decisive lungo il percorso verso gli Oscar: miglior film, miglior attore protagonista per Troisi, miglior regia per Radford, miglior sceneggiatura non originale e miglior colonna sonora. E anche se, durante la cerimonia, soltanto quest’ultima nomination si tradusse in una statuetta, conquistata dal compositore argentino Luis Bacalov, Il postino continua a conservare un posto speciale nei cuori degli appassionati e, forse, anche dei giurati dell’Academy statunitense.
