Essere in grado di raccontare la vita e le emozioni della propria gente attraverso la musica è un dono concesso a pochi, talentuosi, artisti. Ad un gruppo ancor più ristretto di musicisti è poi dato non solo di raccontare la propria terra attraverso le canzoni, ma di incarnare, a dispetto dell’argomento e dell’ispirazione del singolo brano, l’anima stessa del proprio luogo d’origine, d’essere alfiere del modo di essere e di intendere l’esistenza che caratterizza una cultura, una popolazione, come è accaduto con Pino Daniele.
Accade con la voce di Edith Piaf, indissolubilmente legata a Parigi e alla sua storia musicale, accade a Bruce Springsteen, dalla cui voce sembra promanarsi, ad ogni nota, ad ogni verso, la vita difficile della working class statunitense del New Jersey e della East Coast. Addentrarsi nelle discografie di questi artisti significa capire un po’ di più della loro terra d’origine, con la catarsi che solo la musica può provocare.
In Italia, a ben guardare, è proprio a Pino Daniele che spetta la palma di questo incredibile potere evocativo: Pino non è stato solo in grado di raccontare Napoli e i napoletani con la maestria propria di un genio, è stato in grado di incarnare e riflettere la napoletanità ad ogni brano, ad ogni album. Una Napoli che viene fuori, scevra dalla grigia caligine dei luoghi comuni, con tutte le sue luci e le sue ombre, le sue contraddizioni e le sue unicità, con la vivida spontaneità di “na’ camminata/ int’ e viche miezo all’ate”. Ne è la prova lampante che, a 5 anni esatti dalla sua scomparsa, avvenuta improvvisamente il 4 gennaio 2015 nella casa di Orbetello, il suo incredibile lascito artistico non conosca il benché minimo segno di invecchiamento, radicato com’è, oramai, nella coscienza collettiva di un popolo e nei cuori di quanti hanno amato e amano la sua musica.
E ripercorrere la vicenda musicale e umana di Pino Daniele vuol davvero dire vedersi passare davanti, come in un vortice, la storia, musicale e non, di Napoli: gli inizi difficili, in un umile basso del quartiere Porto, sono il preludio alle prime esperienze musicali in alcuni complessi della zona, i New Jet di Gino Giglio e soprattutto i Batracomiomachia, gruppo che nasce in una grotta del quartiere Sanità e in cui militano personaggi come Enzo Avitabile, Rino Zurzolo, Enzo Ciervo e Rosario Iermano. Sono gli anni dell’ascesa del neapolitan power, un genere musicale squisitamente partenopeo che fonde i suoni di Napoli con l’America, specialmente l’America della black music. Dopo l’esperienza degli Showmen assieme a Mario Musella, nel 1975 James Senese e Franco Del Prete fondano i Napoli Centrale, in cui lo stesso Pino Daniele milita brevemente come bassista.
È in questo clima che viene dato alle stampe, nel 1977, il primo disco solista di Pino Daniele, Terra mia, un titolo eloquente per un album dalle notevoli venature blues, in cui la lezione di sincretismo musicale di quegli anni è assolutamente presente. Su tutto, però, spicca la traccia d’apertura, ascesa allo status di manifesto e classico della canzone napoletana: “Napule è”. Al secondo lavoro in studio, l’eponimo Pino Daniele del 1979, succede l’album della definitiva consacrazione a livello nazionale: Nero a metà. Uscito nel 1980 e dedicato allo scomparso Mario Musella, definito dall’amico Pino “nero a metà” perché “figlio della guerra”, di madre napoletana e padre nativo americano, è questo il disco in cui probabilmente il sound di Pino Daniele raggiunge la piena maturità artistica.
Gli anni ’80 sono vissuti sulla cresta dell’onda: in studio arrivano ben sette album, tra cui i capolavori come Vai mo (1981), Bella ‘mbriana (1982) e Ferryboat (1985), arrivano le prime prestigiose collaborazioni internazionali, che proseguiranno per tutta la vita, tra cui Wayne Shorter ed Alphonso Johnson dei Weather Report, Steve Gadd, Mel Collins, Richie Havens e Gato Barbieri. In questo crogiuolo di talenti Pino spicca il volo e fiorisce. Al suo talento compositivo fa il paio un approccio originalissimo e personale alla chitarra che lo porta, tra le altre cose, a prendere parte alla serie di concerti internazionali “Night of the guitar” assieme a strumentisti del calibro di Steve Hunter, Phil Manzanera, Randy California e molti altri.
Negli anni ’80 matura anche un altro legame umano ed artistico incredibile, quello con Massimo Troisi: la musica di Pino farà da colonna sonora ai film Ricomincio da tre, Le vie del Signore sono finite e, soprattutto, al capolavoro del 1991 Pensavo fosse amore…invece era un calesse, il cui tema principale è l’indimenticabile Quando. Nei decenni successivi, com’è proprio per i talenti mai esausti, la produzione artistica di Pino sperimenta nuove strade, accorpa nuove sonorità e influenze, riscontrando spesso e volentieri un ottimo riscontro anche sul profilo commerciale, basti pensare a Non calpestare i fiori nel deserto e Dimmi cosa succede sulla terra, rispettivamente del 1995 e del 1997, entrambi ben accolti dal pubblico.
Sul piano delle esibizioni dal vivo degli ultimi anni, impossibile non ricordare l’incredibile concerto in duetto con Eric Clapton, tenuto nel 2011 allo stadio Simonetta Lamberti di Cava de’ Tirreni, in cui il chitarrista Pino dà ennesima prova di poter dialogare, da pari a pari, con gli dei della chitarra contemporanea. Sarà lo stesso Clapton, nei giorni seguenti la scomparsa di Pino, a tributargli un omaggio piccolo ma sincero, un breve brano acustico, una specie di estemporaneo epitaffio chitarristico che dà il senso di come l’artista partenopeo fosse capace di conquistarsi l’amore ed il rispetto di quanti gravitassero attorno a lui.