Studenti, hippie, pantere nere. Le tre anime della controcultura progressista dell’America di fine anni ’60 protagoniste de Il processo ai Chicago 7, seconda opera da regista di Aaron Sorkin (che ne firma anche la sceneggiatura) candidato a sei premi Oscar (tra cui miglior film). La pellicola narra del processo che vide come imputati i cosiddetti Chicago Seven, gruppo di attivisti contro la guerra in Vietnam accusati dal Governo federale di aver causato i disordini durante la convention del Partito Democratico che si tenne a Chicago nel 1968. Il cast è d’eccellenza: Frank Langella, Michael Keaton, Eddie Redmayne e Joseph Gordon-Levitt sono solo alcuni dei protagonisti. Affidando la ricostruzione degli eventi a flashback durante gli interrogatori dei testimoni nel corso del processo, il regista statunitense mescola la drammaticità storica dei fatti con la struttura narrativa tipica del legal thriller.
La scelta in favore di una dialettica libera da tecnicismi che punta tutto sui contenuti e sul messaggio politico si fa forte dell’interpretazione di Sacha Baron Cohen (candidato agli Oscar come miglior attore non protagonista), il quale, dopo i suoi celebri Ali G, Borat e Brüno, veste stavolta i panni dell’attivista hippie Abbie Hoffman e appare ancora una volta credibile nel dar vita a un personaggio ai limiti del grottesco e del politicamente scorretto. L’incitamento al disordine per provocare una reazione da parte delle forze di polizia smaschera il paradosso obbligatorio del pacifismo: usare la violenza per accendere i riflettori sull’ingiustizia.

Le accuse di oltraggio alla Corte ai danni dell’avvocato della difesa (interpretato dal premio Oscar Mark Rylance), l’umiliazione dell’imputato legato e imbavagliato in aula, la manipolazione della giuria e l’estromissione arbitraria del teste da parte di un giudice che la storia ribattezzerà come “inqualificabile” sono i canali oscurantisti delle garanzie costituzionali e portatori della sommarietà di un processo politico che, più che accusare i suoi imputati, sembra aver “scelto” i suoi condannati. L’impopolarità della guerra in Vietnam diventa la messa in stato d’accusa delle istituzioni democratiche e delle logiche imperialiste americane che si affidano, per la salvezza morale del popolo, al valore universale del ricordo dei caduti.
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