Una parabola sull’imprevisto che sconvolge la vita e sulla sua accettazione. Candidato a sei premi Oscar nel 2021, tra cui miglior film e miglior sceneggiatura originale, Sound of Metal di Darius Marder (che è anche co-sceneggiatore) è la storia di Ruben Stone (Riz Ahmed), batterista ed ex tossicodipendente che improvvisamente si ritrova a fare i conti con la perdita dell’udito e con un mondo sino a quel momento a lui sconosciuto: il silenzio. Per affrontare la sua nuova vita viene affidato ad una comunità di recupero grazie alla quale imparerà a “vivere da non udente”. La rieducazione alla comunicazione e alle relazioni diventa un racconto di consapevolezza della diversità e di accettazione di una nuova normalità.
Il merito è di un montaggio che non risparmia lunghi e intensi primi piani e di una sceneggiatura che si affida ad un sapiente utilizzo della lingua dei segni come principale strumento di contatto tra gli attori e tra questi e lo spettatore. Il risultato è un gioco di contrasti tra l’armonia dei silenzi e lo strepitio metallico dei rumori. Le mani e le vibrazioni da esse generate si fanno bocca e parola in grado di superare le mancanze sensoriali, delineando così la scoperta di una realtà che suscita tenerezza. Il confronto con la disabilità, che ha qui il sapore della salvezza dagli eccessi di una vita spesa al limite, è negli sguardi e nelle espressioni cariche di dignità del capo della comunità Joe (Paul Raci) e nell’immagine salvifica della ragazza di Ruben, Lou (Olivia Cooke), guida e luce nel tunnel della vita del batterista.

La vera protagonista è la realtà. Non è un caso che il regista si affidi, per gran parte del cast, ad attori non professionisti al fine di conferire autenticità all’intera narrazione. La pacatezza dei toni, la centralità delle espressioni facciali degli attori e i momenti di muto che ne fanno da contorno sono il frutto di una sceneggiatura che si conferma il punto di forza del film. Lo spettatore resta coinvolto dalla delicatezza di un mondo che vive la sua normalità senza pretenderla e che ritrova pace nel silenzio dell’accettazione e della contemplazione di sé.
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