Sono iniziati da pochi giorni i casting per il docufilm Un futuro per Bagnoli, progetto cinematografico nato nel cuore della periferia ovest di Napoli con l’intento di raccontare il territorio all’ombra dell’ex-sito industriale Italsider attraverso il mezzo filmico e fotografico. Sostenuto dalla campagna crowdfunding lanciata sulla piattaforma Produzioni dal basso, il film ha alle spalle tre giovani campani: il produttore Raffaele Vaccaro, fondatore della Nisida Environment, startup nata nel 2020 dedita al monitoraggio, divulgazione e innovazione ambientale; il giovane regista Stefano Romano, classe 1995, già assistant director sui set di Francesco Lettieri; l’aiutoregista, fonico e coordinatore delle riprese Salvatore Cosentino, attivista particolarmente legato all’area flegrea.
Raffaele Vaccaro, la tua storia personale e professionale ha tracce sparse per l’Europa.
“Sono cresciuto a Salerno, da padre scafatese e madre belgo-italiana, figlia di un friulano emigrato in Belgio. A sei anni mi sono trasferito a Bruxelles dove mi sono diplomato alla Scuola Europea, la prima esperienza di respiro comunitario. Dopodiché mi sono spostato in Inghilterra per laurearmi in Biologia Marina e Oceanografia a Southampton. Tornato a Bruxelles, ho conseguito nel 2017 un Master in gestione dell’ambiente e pianificazione del territorio. Ed è in quegli anni che ho deciso di tornare in Italia. L’occasione mi fu data da un’azienda belga di biotecnologia interessata a sviluppare il mercato di una tecnologia per il trattamento delle acque reflue. Sono tornato facendo il commerciale, ecco. Questo mi ha permesso di mettere un po’ di soldi da parte e aprire nel febbraio del 2020 la mia startup”.
La Nisida Environment, appunto. Qual è la vostra mission?
“Abbiamo tre assi di attività: innovazione in campo ambientale, monitoraggio ambientale avanzato, produzione di materiale utile a raccontare e divulgare le criticità ambientali. Ed è su questo versante che si inserisce la produzione del docufilm su Bagnoli”.
Il progetto del docufilm, però, affonda le sue radici nei tuoi anni di studio.
“Sì, durante gli anni del Master. Nel 2016, durante uno stage a Città della Scienza, scoprii il mondo di Bagnoli. Chiamai un amico fotografo, Ernesto Rollando, per lavorare ad un progetto fotografico che potesse raccontare le criticità del territorio. Poi di quel materiale non se ne fece niente. E così l’anno scorso ho ricontattato Salvatore Cosentino, che allora venne a farci da Cicerone, per riprendere il progetto là dove si era interrotto”.

Bagnoli come archetipo universale?
“La storia di Bagnoli è l’esempio perfetto delle conseguenze ambientali, sociali ed economiche del processo di deindustrializzazione che ha caratterizzato tutta l’Europa a cominciare dal Regno Unito, all’inizio degli anni Ottanta, con la Tatcher. Pur accettando la deindustrializzazione, però, è necessario assicurare opportunità di sviluppo alternative. Per me la storia degli abitanti di Bagnoli, il modo in cui hanno lottato per avere un minimo di giustizia sociale, il lavoro di empowering della società civile, è un esempio da portare in giro per l’Europa. Questo è un punto del progetto che mi sta a cuore: mostrare come gli uomini e le donne del territorio si sono organizzati per assicurare un futuro alla loro area”.
Salvatore Cosentino, sono trascorsi quasi trent’anni dalla dismissione dell’Italsider. Da abitante del quartiere e attivista politico, cosa rappresenta oggi quel sito?
“Ti posso dire che c’è una grossa parte di abitanti che ancora oggi percepisce quel luogo come un posto di attività produttiva. C’è un’altra fetta, invece, più giovane, quella su cui noi vogliamo soffermare la nostra narrazione, che vede in quel luogo l’esperienza di un fallimento. In un senso o nell’altro, comunque, l’Italsider resta un oggetto estremamente presente nelle vite di chiunque abiti il quartiere che agisce come agente depressivo. Abitua alla mancanza, alla negazione dello spazio“.
Uno spazio vissuto dalla generazione giovanissima come un muro prima che come una storia…
“Esatto. E io mi domando, e non sono né un sociologo né uno psicologo: quando sei abituato ad essere privato di qualcosa che è grande quanto il tuo stesso quartiere che tipo di abitudine ti porterai per il resto della tua vita? Dalle prime interviste preliminari che abbiamo fatto, e che stiamo raccogliendo in una rubrica intitolata “Le voci di Bagnoli”, abbiamo riscontrato un’attitudine alla disillusione. Una disabitudine al cambiamento che nasce proprio perché cresce in un quartiere in cui il cambiamento è stato sinonimo di fallimento”.
Negli anni recenti, però, Bagnoli è stata il palcoscenico di uno straordinario attivismo – penso a Iskra, a Lido Pola, a Villa Medusa, all’Osservatorio Popolare.
“Tutte esperienze che hanno provato a modificare il presente sulla base di un modello diverso di futuro. E che contiamo di far emergere nel film”.
Stefano Romano, torni alla regia documentaristica dopo Altromare, il tuo lavoro dedicato alla pesca professionale e alla biodiversità. Il reale come materia filmica prediletta?
“Il documentario ha delle potenzialità incredibili che vanno al di là della semplice inchiesta. Significa rappresentare la realtà con una pluralità di voci. È difficile perché devi accettare le cose come vengono, anche se non sei d’accordo. Questo me lo ha insegnato bene Gianfranco Pannone al CSC. Eppure è una cosa che solo il documentario può fare perché la fiction parte inevitabilmente da un manipolo di persone che sono tutte d’accordo tra di loro”.
Uno sguardo in presa diretta?
“Credo che fare documentario non significhi essere oggettivi, ma significhi brutalmente manipolare un pochino la realtà per trasformare quella cosa che non ha fondamentalmente senso che è la vita e adattarla a una cosa che ha senso che è la struttura cinematografica”.
La narrazione si concentrerà sui giovani abitanti del quartiere?
“Mi interessa narrare quella fascia di età in cui si è costretti a crescere. E allo stesso tempo vorrei raccontare un quartiere che dopo tante promesse ha scelto di diventare grande cercando di migliorare le cose da sé”.
Se è vero, come diceva Deleuze, che il paesaggio non è mai uno sfondo neutro, Bagnoli è un territorio profondamente parlante. Come interagierete con lo spazio?
“Il cinema rispetto al teatro o alla letteratura consente la connessione di due elementi del reale: personaggi e spazi urbani. La geografia dello spazio sarà molto importante nel film. Il desiderio è di portare i nostri personaggi nei luoghi significativi per me o per loro per lasciar esprimere il reale. Descrivere il quartiere attraverso i loro occhi vuol dire anche questo: che lo spettatore si orienti negli spazi e comprenda i sentimenti che lo abitano”.
La campagna crowdfunding con cui avete scelto di sostenere la produzione ha raggiunto un ottimo risultato con oltre 18 mila euro raccolti. Una scelta solo economica?
“Ci abbiamo ragionato: se vuoi raccontare Bagnoli, questo era il modo più efficace per coinvolgere la cittadinanza e renderla consapevole che stavamo per iniziare qualcosa non alle loro spalle ma grazie al loro aiuto. Credo che nessuno abbia il diritto di raccontare una storia senza l’approvazione di chi è parte di quella storia”.
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