Vaccino anti Covid, Silvio Garattini: “Fiducia ma ci vuole trasparenza sulla sperimentazione”
Per lo scienziato 92enne "le industrie farmaceutiche non si stanno comportando bene, sembra siano in gara fra di loro e c'è il rischio che la gente non si fidi"
“Fiducia sui vaccini anti Covid, ma ci vuole anche trasparenza: i governi dovrebbero premere perché escano a breve pubblicazioni scientifiche sugli studiriguardanti la ricerca e la sperimentazione”. Come al solito, il professor Silvio Garattini non le manda a dire: da “guerriero gentile” quale è parla in maniera schietta e, alla stesso tempo, con toni riflessivi di Covid-19, farmaci, vaccino e sistema sanitario. L’occasione è data dal webinar organizzato da Lucio Romano, presidente di Comunità solidale e senatore della Repubblica nella XVII legislatura, nell’ambito degli incontri Dialoghi sulla democrazia. L’appuntamento on line con il presidente dell’Istituto farmacologico ‘Mario Negri’ ha visto anche la collaborazione delle associazioni Democrazia & Territorio (presente con Alfredo di Franco), Meridionalisti democratici (Domenico Capobianco), Risorse e Futuro (Andrea Della Selva). A moderare l’evento Roberto Russo, vicecaporedattore del Corriere del Mezzogiorno. Di seguito le domande poste a Garattini dai partecipanti al webinar.
Professor Garattini, qual è lo stato attuale della ricerca nell’ambito dei farmaci per la cura dei malati di Covid-19, soprattutto per quanto riguarda gli anticorpi monoclonali?
“In passato abbiamo riempito i pazienti di alcuni farmaci che si sono dimostrati non solo inefficaci ma addirittura tossici. Mi riferisco al lopinarivir, ritonavir, remdesivir, idrossiclorochina e anche azitromicina e tocilizumab. Ad esempio il remdesivir è un farmaco antivirale utilizzato per la Sars, ma l’Oms dopo un po’ ha chiuso alla possibilità di utilizzo per il Covid-19. Nonostante ciò, la Ue ha speso 1,2 miliardi per comprare 500mila cicli di trattamento con il remdesivir, al prezzo di 2.400 euro per ogni ciclo. Adesso per la cura al Covid vengono utilizzati principalmente il desametasone, un derivato cortisonico abbastanza sicuro, e i farmaci antifebbrili come il paracetamolo, cioè la Tachipirina, mentre l’eparina viene impiegata solo a scopo preventivo. Inoltre, si stanno studiano gli anticorpi monoclonali, che sono delle proteine che si agganciano alle proteine del virus e impediscono a quest’ultimo di entrare nelle cellule e, quindi, diffondersi nel corpo”.
Cosa ne pensa dell’utilizzo del plasma iperimmune?
“È un rimedio centenario. Durante le epidemie si è utilizzato il plasma dei soggetti che hanno avuto la malattia, con l’idea che contenga dei principi in grado di opporsi alla riproduzione del virus. C’è, però, dell’entusiasmo per certi versi ingiustificato: questi prodotti qualche volta hanno degli effetti collaterali abbastanza gravi e l’evidenza scientifica è ancora molto scarsa. Esistono degli studi che avrebbero trovato un minimo di utilità nel combattere il virus da parte del plasma iperimmune, mentre per altri non avrebbe alcun effetto positivo. C’è, quindi, ancora molta discussione, ma il problema verrà presto superato perché gli anticorpi monoclonali sono la versione moderna e specifica di questo tipo di trattamento”.
Ci può dire qualcosa in merito ai vaccini e alla trasparenza sui risultati delle ricerche?
“Ci sono tre vaccini in dirittura d’arrivo: Astra-Zeneca, Pfitzer e Moderna. Non dobbiamo, però, avere troppa enfasi sul fatto che arrivino presto, almeno fin quando non avranno superato tutte le fasi di controllo. Purtroppo, però, le industrie farmaceutiche non si stanno comportando bene: sembra che ci sia una specie di gara fra loro, con il rischio che la gente perda la fiducia. Già adesso i sondaggi dicono che il 30 per cento degli italiani vorrebbe aspettare prima di farsi il vaccino. Inoltre, assistiamo ad un eccesso di comunicazione, a cominciare dal Governo. Meglio non fare troppi annunci, perché destano attese che, se non soddisfatte, fanno scattare la sfiducia. C’è poi il problema dell’organizzazione per la distribuzione: dobbiamo prepararci in tempo, altrimenti succederà come per l’antinfluenzale o come le mascherine introvabili all’inizio dell’epidemia. Infine, la trasparenza: i governi dovrebbero premere perché escano a breve delle pubblicazioni scientifiche sugli studi collegati alla ricerca e alla sperimentazione del vaccino. Massima fiducia, ma un vaccino utilizzato da miliardi di persone deve avere pochi effetti collaterali. Dopo l’approvazione, inoltre, ci deve essere un monitoraggio continuo, perché un paio di questi vaccini utilizzano una metodologia che non è mai stata utilizzata”.
La vaccinazione antinfluenzale può essere una prima difesa in attesa del vaccino anti Covid?
“Una qualsiasi vaccinazione promuove una forma di immunità non risolutiva, ma che può essere d’aiuto. Esistono almeno quattro studi, uno brasiliano, un paio americani e anche uno italiano, i quali hanno dimostrato che chi si è vaccinato prima della pandemia ha avuto fra il 15 e 20 per cento in meno di possibilità di essere contagiato. Con la vaccinazione antinfluenzale c’è un vantaggio, però, ben più importante: i primi sintomi dell’influenza e del Covid sono simili, ma chi è vaccinato non svilupperà l’influenza e, se si ammalerà, andrà ai pronto soccorso o presso il proprio medico di base sapendo già qual è il problema. Questo sarà un vantaggio per evitare l’intasamento del sistema sanitario. L’impiego della mascherina, inoltre, diminuirà anche la possibilità dell’infezione da influenza”.
Che cosa ci ha insegnato questa pandemia per quanto riguarda la ricerca e l’organizzazione sanitaria?
“Sulla ricerca non ho visto alcun cambiamento: viviamo nella miseria. In Italia c’è la metà dei ricercatori rispetto alla media dei Paesi europei e ne perdiamo tutti i giorni, perché se ne vanno dove lavorano meglio. Il nostro investimento nella ricerca è un terzo di quello della Germania. C’è una grande miopia: senza ricerca non ci può essere innovazione, prodotti ad alto valore aggiunto e l’economia di un Paese non sta in piedi. La ricerca costa relativamente poco: con un miliardo all’anno possiamo mantenere il lavoro e pagare lo stipendio a 9mila ricercatori. Anche per il servizio sanitario nazionale ci sono molti cambiamenti da effettuare. Prima di tutto, dobbiamo ripristinare la medicina del territorio: avere delle strutture adeguate con apparecchiature per fare esami da laboratorio e più medici negli ambulatori, aperti tutti i giorni della settimana. Questo per evitare che tutto vada a finire nei pronto soccorso e negli ospedali, dove i costi sono di gran lunga superiori rispetto a quelli della medicina del territorio. Dobbiamo cambiare la mentalità ospedalocentrica, ma soprattutto va fatta una grande rivoluzione culturale. Sappiamo ormai che il 50 per centro delle malattie croniche non piovono dal cielo: ce le procuriamo noi, con i nostri cattivi stili di vita. Il 70 per cento dei tumori sono evitabili. Dobbiamo fare, quindi, un grande sforzo perché la mentalità della prevenzione abbia la meglio sul mercato della medicina. Questa è una rivoluzione culturale che richiede la presenza della scienza nella scuola, come fonte di conoscenza e con l’insegnamento della metodologia scientifica”.
C’è spazio per la ricerca indipendente o siamo ancora in mano alle grandi multinazionali?
“La ricerca indipendente è sporadica in Italia. Il Ssn per la ricerca spende lo 0,2 per cento dei 115 miliardi a sua disposizione e, quindi, non è in grado di esercitare la sua funzione. Non può essere dipendente solo dalla ricerca dell’industria farmaceutica che, naturalmente, guarda al proprio profitto. Quindi c’è poca ricerca, ad esempio, sulla differenza fra uomini e donne riguardo la tossicità dei farmaci, perché le donne non vengono inserite, se non in piccola percentuale, negli studi clinici controllati dell’industria. Pensiamo, inoltre, alle 7mila malattie rare che attendono una terapia: anche queste non interessano all’industria perché i numeri sono piccoli e, quindi, i ritorni economici scarsi. Abbiamo bisogno di ricerca indipendente, ma anche di formazione indipendente: i medici oggi conoscono soltanto l’informazione dell’industria farmaceutica. Non esiste nel nostro Paese l’informazione indipendente. Mi auguro che questa pandemia possa aiutare a riflettere per risolvere tali questioni, ma sono molto preoccupato che non si faccia nulla”.
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