“Questa fortezza che la natura si è costruita contro ogni contagio o minaccia di guerra, questa razza d’uomini fortunati, questo piccolo universo – recita la famosa elegia pronunciata per la madrepatria Inghilterra dal morente Giovanni di Gand nel Riccardo II di William Shakespeare – pietra preziosa incastonata nell’argenteo mare, che la difende, quasi come un vallo od un fossato circondano un maniero, contro l’invidia di meno elette nazioni”. Esistono pochi altri episodi nella letteratura inglese che descrivono meglio lo spirito britannico e il suo tradizionale approccio verso il resto del mondo, specialmente verso l’Europa continentale. Nel sorvolare il canale della Manica, nella cabina di un aereo, diretto verso l’aeroporto di Manchester, questi versi scritti più di cinque secoli fa risuonano nella mia mente, e non per caso. Siamo alla vigilia della Brexit, è fatta: la tanto attesa uscita formale del Regno Unito dall’Unione europea è prevista per il 31 gennaio, a meno di dieci giorni dall’inizio del mio viaggio.
In realtà, a ben vedere, non è che sia proprio tutto finito, anzi: dinanzi ai ministri di Sua Maestà si stagliano, più imponenti delle bianche scogliere di Dover sotto di me, undici mesi di serrate trattative con Bruxelles, durante i quali andranno definiti tutti i termini di un divorzio che, da quella vittoria del leave al referendum del 23 giugno 2016, più di tre anni e mezzo fa, molti fra “noi continentali” ancora stentano a comprendere pienamente. Il tassello che, il più delle volte, manca ai nostri ragionamenti è proprio quell’atteggiamento tendenzialmente isolazionista che il principe shakespeariano ci suggerisce, quella che molti chiamano, non senza accezione dispregiativa, la mentalità insulare britannica. Si tratta di una definizione un po’ caricaturale ma, probabilmente, un pizzico di verità c’è: le barriere geografiche hanno una forte influenza sulla storia e sulla mentalità dei popoli e, anche nei britannici di oggi, essere da sempre divisi dal continente da un turbinoso braccio di mare qualche impronta deve averla evidentemente lasciata. Penso si possa considerare un dato di fatto che il Regno Unito, nel subconscio di tanti inglesi, non sia necessariamente un tutt’uno con il continente europeo, almeno non completamente; nei confronti della vita politica comunitaria hanno sempre tenuto un piede dentro e uno fuori l’uscio.
La confusione è dietro l’angolo: dalla prospettiva di Londra, l’unico pezzo di Uk che la maggior parte degli stranieri vede nella propria vita, questa visione appare grottesca ma, se ci si spinge fuori dal melting pot della city, da una zona in cui i voti per il remain sono arrivati al 75%, e si raggiunge l’Inghilterra profonda delle Midlands, ci si rende conto che ai nostri occhi si apre una nazione completamente diversa. La città dove alloggio durante la mia permanenza, Newcastle-under-lyme, è un centro industriale nel cuore della regione delle West Midlands in cui le preferenze per il leave hanno toccato il 63%, un dato praticamente speculare a quello londinese. Qui, l’aria che si respira è lontana anni luce dalla Capitale. La popolazione straniera, ancorché presente, è molto più rarefatta e la vita pubblica, inutile dirlo, scorre a ritmi drasticamente più lenti. Il lavoro viene principalmente dagli impianti industriali della zona e la sera, mi si dice, non è troppo raro che il vento trasporti le maleodoranti esalazioni delle ciminiere, giungendo fino ai viali dei centri abitati contornati da file ininterrotte di tradizionali case a due piani.
A parlarmi è Marika, una biotecnologa di Aversa, in provincia di Caserta, che nelle Midlands è arrivata per motivi di studio, nell’ambito di un dottorato in ingegneria tissutale, grazie al quale lavora presso il Guy Hilton research centre della Keele University, nella vicinissima Stoke-on-Trent. Il suo centro è nel circuito della Nhs, quella stessa sanità pubblica che politici pro-Brexit come l’attuale primo ministro, Boris Johnson, avevano promesso di potenziare con i soldi che l’uscita dall’eurozona avrebbe fatto risparmiare al Regno Unito. I finanziamenti, a onor del vero, non sembrano essere un problema neanche ora: “I fondi immessi nella ricerca qui sono molti di più rispetto all’Italia – afferma – ne deriva che, con mezzi potenziati, il lavoro proceda molto più spedito rispetto ai laboratori campani, dove comunque la qualità della ricerca resta, a paragone, alta”. Le chiedo se, in una zona dove il voto per abbandonare l’Ue ha stravinto, un italiano espatriato avverta una qualche forma di diffidenza nell’atteggiamento dei residenti, ma mi sento rispondere che, nella sua personale esperienza, la Brexit è entrata poco o nulla.
Una risposta curiosa alla mia domanda, alla quale non so quanto prestare fede, la ricevo nella confinante regione del North West da Renato, un cuoco ventinovenne che da due anni lavora in un ristorante di Wigan, cittadina di 80mila anime a metà strada tra Liverpool e Manchester, le mie prossime destinazioni: “Questa cosa dei confini chiusi, l’hanno fatta principalmente pensando agli immigrati esterni all’Ue, noi italiani qui siamo ben tollerati e non avremo ripercussioni” mi dice, forte del parere del suo datore di lavoro. Incassate queste risposte, il mio viaggio continua verso Manchester, che riesco a raggiungere solo con due ore di ritardo. Qui soppressioni e ritardi sulla rete ferroviaria sono cose molto comuni. In questa grande città, moderna ma dal cuore operaio, da sempre feudo del partito laburista, il remain ha prevalso con oltre il 60% dei voti. “Abbiamo commesso una sciocchezza che non mi spiego – mi racconta Steve, cinquantottenne professore delle superiori, in un vecchio e angusto pub del centro – i miei ragazzi mi chiedono come mai la mia generazione abbia fatto loro una cosa simile, e io non so onestamente cosa rispondere, non ha senso”. La Brexit è anche questo, uno scontro generazionale, un avvenimento inspiegabile per molti inglesi che, essendo giovani o vivendo nei grandi centri, sono riusciti a sfuggire al fascino degli slogan dello Ukip di Nigel Farage e soci.
Il giorno seguente Liverpool, a poca distanza, mi accoglie avvolta da una nebbia bianca che non ne offusca la naturale policromia: in quella che, dopo Londra, è probabilmente una tra le città più vitali del Paese, il flusso di stranieri che arrivano da tutto il mondo principalmente per visitare i luoghi dei Beatles, fa sì che sulle sponde del fiume Mersey la musica sia sostanzialmente la stessa della vicina – e cordialmente odiata – Manchester. Salito sul treno per Birmingham, la destinazione della mia terza giornata di viaggio, leggo della proposta del primo ministro Johnson di abolire la barriera del reddito minimo richiesto agli immigrati residenti, ammontante a 30mila sterline, in favore di un sistema a punti che ricalchi il convincente modello australiano. Il Guardian, tradizionalmente progressista, lo attacca ferocemente e persino dalle colonne del moderato The Times, che pure lo aveva appoggiato in campagna elettorale, non trapela grande sicurezza in merito: un giorno di ordinaria confusione politica nelle terre d’Albione.
La seconda città più popolosa d’Inghilterra si presenta come un curioso ibrido fra due dimensioni diverse: da un lato, cantieri e avveniristici edifici pubblici di recente costruzione, dall’altro i sobborghi sterminati e i canali di navigazione costruiti nel Settecento, retaggio di quando Birmingham per i suoi connazionali non era altro che la cenciosa capitale del black country, il paese nero delle miniere e delle industrie. Qui, tra il 2014 ed il 2020, dall’Unione europea sono arrivati circa ottantasei milioni di sterline per finanziare progetti di rilancio occupazionale e dell’economia e, probabilmente, il risultato si sente: qui il leave ha superato il remain per meno di mezzo punto percentuale.
Il mio viaggio nella profonda Inghilterra delle grandi città industriali ha un epilogo fuori schema: un treno che attraversa colline e vaste campagne, d’un verde intenso anche nel mese di gennaio, mi porta verso sud nella piccola Stratford-upon-Avon, nota al mondo per essere la città natale di William Shakespeare. Qui la Holy Trinity Church, la chiesa che conserva le spoglie del drammaturgo e della sua famiglia, è uno dei siti più visitati dell’intero Regno Unito. “Direi che circa il 60% dei turisti che accogliamo sono stranieri, in larga parte europei – mi dice un responsabile che mi dà il benvenuto all’ingresso della navata centrale – sono numeri straordinari se si tiene conto di quanto siamo distanti da Londra”.
Passeggiando sulle sponde verdeggianti del placido fiume Avon, la merry old england, l’allegra vecchia Inghilterra sogno più o meno consapevole di molti, non sembra un concetto così astruso. È il retaggio di una visione sublimata della propria identità nazionale, lontana dal mondo in cui, da più di mezzo secolo, il Regno Unito ha cominciato ad avere un ruolo sempre più marginale sullo scacchiere internazionale. È la reazione di una fetta di popolazione che, scontenta dello status quo, trova rifugio in una dimensione ideale che con la realtà c’entra davvero poco: se visitare il Regno Unito dovesse diventare più problematico e dispendioso per noi del continente, sarebbero i centri turistici come Stratford-upon-Avon, dove pure ha prevalso il leave, a subirne le conseguenze in maniera più tangibile. Per quanto mi riguarda, non mi resta che tornare a casa e aspettare, come tutti, la fine del turbinio fatto di caos, incertezze e crisi d’identità che flagella da tempo questo curioso pezzo di mondo, “quest’aiuola beata, questa terra, questo reame d’Inghilterra”.
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