Era finita, secondo gli inquirenti, nella diretta disponibilità del clan Zagaria l’azienda di Grazzanise sottoposta a sequestro preventivo dal nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza di Napoli. Il provvedimento verso la ditta, operante nel settore dell’allevamento bufalino e della produzione di latte crudo, è stato emesso dal Gip del tribunale di Napoli su richiesta della Direzione distrettuale antimafia partenopea, in quanto ritenuta essere utilizzata da Antonio e Carmine Zagaria, 58 e 52 anni, fratelli del boss Michele Zagaria, per favorire gli interessi economici del loro gruppo criminale.
Secondo quanto emerso dalle indagini svolte dal Gruppo investigazione criminalità organizzata di Napoli, infatti, l’attività sequestrata sarebbe stata impiegata dai due fratelli quale “schermo” per consentire alla famiglia Zagaria di reimpossessarsi in maniera occulta e fraudolenta dell’azienda bufalina di proprietà della madre Raffaela Fontana, da tempo colpita da diverse misure giudiziarie e perciò affidata alla gestione di un amministratore. A tale piano avrebbero preso parte anche i fratelli Antonio (oggi collaboratore di giustizia) e Fernando Zagaria, solo omonimi dei primi due, i quali hanno messo a disposizione le loro aziende per consentire al clan di proseguire la propria attività nel settore bufalino, particolarmente remunerativo e diffuso nel territorio della provincia di Caserta.
Dopo aver in sostanza esautorato dalle proprie funzioni l’amministratore giudiziario della ditta Fontana Raffaela, a partire dal 2006 Carmine e Antonio Zagaria avevano di fatto dato vita a una gestione coordinata delle aziende del settore bufalino sopracitate e della società intestata alla madre. Obiettivo raggiunto grazie a una serie di misure quali la coincidenza delle sedi legali e operative, con il conseguente utilizzo promiscuo di gran parte dei locali, degli impianti e degli animali già presenti all’interno dell’azienda sottoposta ad amministrazione giudiziaria e la commistione, anche sotto il profilo contabile, dei rapporti commerciali con l’unico fornitore, una società operante nel settore dei mangimi, e l’unico cliente, una società di produzione casearia, che risultavano comuni a tutte le ditte coinvolte. I due facevano ampio ricorso, in tali rapporti, ad operazioni di sovra e sotto fatturazione sia in fase di acquisto, sia in fase di vendita, così da consentire la creazione di liquidità occulta, poi sistematicamente sottratta dalle casse aziendali per essere messa a disposizione della famiglia Zagaria e, quindi, del clan criminale.
Un modus operandi disposto, secondo gli inquirenti, dal boss Zagaria che aveva reso assolutamente vane le misure cautelari che gravavano sulla ditta di Raffaela Fontana e avrebbe poi, addirittura, consentito al clan di rientrare nella piena disponibilità della quasi totalità dei beni confiscati all’azienda, grazie a un acquisto all’asta al prezzo stracciato di appena 100mila euro per subentrare nell’attività. I beni della società, composta sia da manufatti, sia da immobili, quali un’abitazione adibita ad appartamento per il custode, stalle, locali e attrezzature per la mungitura, depositi per i mangimi e circa 350 capi di bestiame, hanno un valore complessivo stimato intorno ai 2 milioni di euro.
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