Gli Stati Uniti continuano a bruciare, con le proteste per la morte a Minneapolis dell’afroamericano George Floyd (soffocato a terra per oltre nove minuti da un poliziotto bianco dopo un arresto) che s’estendono a macchia d’olio attraverso il Paese e dalla città del Minnesota – messa letteralmente a ferro e fuoco in questi giorni – hanno ormai raggiunto anche Detroit, Los Angeles e Oakland in California, New York, Atlanta e decine di altre città da una costa all’altra dell’enorme nazione. E nella bufera finisce anche il presidente Donald Trump.
Centinaia di manifestanti, infatti, si sono radunati da ieri persino davanti alla Casa Bianca, per urlare la loro rabbia contro Trump e invocare giustizia per la vittima. I servizi segreti hanno addirittura messo in lockdown la residenza presidenziale per motivi di sicurezza. Lo stesso Trump, nei giorni scorsi, si era attirato le critiche di milioni di americani dopo aver scritto su Twitter che “in caso di saccheggi si inizia a sparare“, con i gestori della piattaforma social costretti a segnalare, per la seconda volta in pochi giorni, un tweet trumpiano poiché “viola gli standard sull’esaltazione della violenza” (è in corso una polemica durissima tra Donald Trump e Twitter). Dure critiche al presidente sono giunte anche dal candidato democratico alle prossime elezioni presidenziali, Joe Biden, che lo ha attaccato a testa bassa: “Sono furioso, Trump istiga alla violenza“. E, inevitabilmente, il “Caso Floyd” è destinato ad avere un’enorme influenza sul voto del prossimo novembre.
Le proteste sono scoppiate martedì, il giorno dopo la morte di Floyd, quando è stato diffuso un video nel quale si vede l’uomo bloccato a terra supplicare l’agente Derek Chauvin che gli preme il ginocchio sulla nuca. Col passare dei minuti, nel video Floyd smette lentamente di parlare e muoversi. E le sue ultime parole, “I can’t breathe“, sono poi diventate il grido di battaglia di migliaia e migliaia di manifestanti, con le proteste che sono ben presto degenerate in episodi di violenza e saccheggi registratisi in tempi rapidissimi in tutta Minneapolis, tanto da costringere il sindaco Jacob Frey a dichiarare lo stato di emergenza locale. La situazione in città sembra essere fuori controllo, dopo tre giorni di scontri e violenze, con cinquecento uomini della Guardia Nazionale schierati e – secondo le minacciose parole di Trump – pronti a sparare. Nella notte è stato anche dato alle fiamme il commissariato presso il quale era in servizio l’agente Chauvin, il quale nel frattempo è stato arrestato con l’accusa di omicidio di terzo grado, che secondo il codice penale del Minnesota comporta una pena fino a venticinque anni di carcere.
Intanto, gli scontri e le proteste stanno infiammando anche numerose altre città americane, spesso con esiti tragici. Nelle scorse ore, riporta l’Associated Press, a Detroit nel Michigan è stato ucciso un ragazzo di 19 anni, colpito da una serie di spari provenienti da un’auto lanciata in corsa contro la folla che protestava. A Oakland, in California, un agente di polizia ha trovato la morte e un secondo è rimasto ferito da colpi di arma esplosi da sconosciuti – fa sapere la Cnn riprendendo fonti di polizia – durante le proteste da parte di circa ottomila manifestanti che hanno invaso le strade della città della baia di San Francisco.
La tensione a sfondo razziale continua a restare altissima ovunque e coinvolge anche i media. Sempre a Minneapolis, per esempio, la Cnn denuncia l’arresto di un suo corrispondente di origini ispaniche, Omar Jimenez, bloccato mentre stava filmando legalmente un arresto in una zona poco distante dal commissariato dato alle fiamme nelle scorse ore. Il suo collega bianco, precisano i vertici del network televisivo, non è stato fermato. E di fronte alle accuse di “violazione del primo emendamento” il governatore del Minnesota, Tim Walz, è stato costretto a scusarsi pubblicamente e, dopo il rilascio del reporter, ha definito il suo arresto come un episodio “imperdonabile, che non sarebbe mai dovuto accadere“.
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