In una Repubblica parlamentare e/o nello Stato libero di Bananas, il fine dicitore alla televisione legge impassibile: “Il presidente del Consiglio dei ministri col gabinetto al completo si è recato stamani a presentare le dimissioni eccetera eccetera… Il presidente della Repubblica ha accettato”. Tutto questo pronunciato con naturalezza e senza panico apparente. Poi, il fine dicitore fa una lunga pausa probabilmente di scoramento e aggiunge, sollecitato dall’esperto cronista di dirette e maratone televisive: “Per il pomeriggio il presidente della Repubblica ha convocato al Quirinale il dottor eccetera eccetera…”. Sensazionale! È questa la notizia che il fine dicitore tendeva giustamente a non enfatizzare: un tecnico nelle stanze del palazzo! Di nuovo!
I giornalisti impazziti cominciano a presidiare fatuamente il Quirinale e ogni andito recondito che possa mostrare le fantastiche architetture del palazzo svuotato dalla pandemia e dalle concertazioni politiche. È un barocco comporsi di fegatelli e di inquadrature svuotate di senso: “Ecco – dice il fine dicitore con orgasmo –, ecco il portone d’ingresso”. La telecamera indugia, pare cercare essa stessa un senso, ma nulla: il portone è vuoto. Segue un florilegio di dettagli del bel palazzo, di bandiere e di corazzieri tagliati a metà dall’inquadratura (è il sapiente rispetto della privacy che l’operatore ben sa di dovere rispettare) e poi un orgasmo di inquadrature vuote con cerimonieri acchittati che tentano di darsi un tono, di corridoi affrescati, di marmi, di esterni metafisici con passanti incuriositi che attraversano la scena, di un turista in bermuda perfino che cerca un varco tra le nuvole che minacciano pioggia per godere del sole di Bella Italia.
Lasciamo ora la cronaca, ora che il nuovo governo è pronto e facciamo un salto indietro. Leggiamo con attenzione il resoconto stenografato da un nostro informatore del primo colloquio privatissimo tra il presidente della Repubblica e il nuovo presidente del Consiglio incaricato. Già nel tono neutro ma intimamente accorato del fine dicitore risultava evidente che il presidente della Repubblica avesse rivolto al presidente del consiglio incaricato una preghiera inconsueta dalla quale dipendeva la salvezza della patria. Come se questa preghiera fosse una trovata del capo dello Stato il quale, venendo a trovarsi in grave imbarazzo per le dimissioni e l’inanità del precedente governo, non sapendo a che Santo votarsi, avesse avuto l’idea di rimediare alla meglio installando una nuova prassi a carattere d’emergenza e pregando il famoso economista di levargli, come si suol dire, le castagne dal fuoco.
Cronaca. Grigia mattina.
Nel proprio gabinetto di lavoro, il capo dello Stato è alla scrivania immerso in gravi cure di Stato. Entra l’usciere. “Eccellenza, c’è di là il dottor professor tal dei tali. Dice che deve parlare con lei. Pare sia cosa urgente”. Il capo dello Stato sorpreso: “Il dottore professore… È venuto… Allora è disponibile… Forse disposto, forse si disporrà, oh gioia, oh Sommo Gaudio: forse anche questa volta ce la sfanghiamo”. È noto che il capo dello Stato, quando è in perfetta solitudine, si compiace di ricorrere a forme gergali per alleviare di poco le pesanti responsabilità che gli sono affidate dal Paese instabile. L’usciere si ritira con un inchino profondo. Dopo poco ritorna, spalanca la porta a due battenti e annuncia solenne: “Sua eccellenza, il dottor tal dei tali…”. Poi si fa da parte per lasciar passare il visitatore.
Il capo del governo incaricato entra e si inchina profondamente: “Buongiorno, eccellenza”.
Capo dello Stato: “Buongiorno, qual buon vento?”. E sorride compiaciuto della battuta.
Capo del governo: “Non veramente buono, eccellenza” (sorride amaro).
Capo dello Stato: “Se c’è un uomo che può sostenere questa situazione delicata, io credo sia lei”.
Capo del Governo incaricato: “Lei mi lusinga e mi tenta, ma meglio di me conosce e comprende…”.
Qui, il resoconto stenografico ha qualche lacuna, probabilmente compromesso dalle lacrime copiose che l’estensore deve aver versato nell’assistere a un momento così topico e drammatico per il Paese intero. Proviamo a continuare.
Capo del governo: “La situazione…”.
Capo dello Stato: “Me lo immaginavo, me lo sentivo scendere, ma ho sperato fino all’ultimo che si potesse scongiurare”.
Capo del governo: “Non è stato possibile”.
Capo dello Stato: “Insomma, decisione irrevocabile”.
Capo del governo: “Irrevocabilissima”.
Capo dello Stato: “Santo cielo, questo non ci voleva. Ehm… Mi piantate così in mezzo ai guai con tutto quello che c’è da fare”.
Capo del governo: “Non credo di rispecchiare la situazione reale”.
Capo dello Stato: “Volete dire la situazione repubblicana”.
Capo del governo: “Insomma, la reale situazione. In una Repubblica, le arene dovrebbero essere proibite. Voi mi insegnate!”.
Capo dello Stato: “Se è alle creature feroci che alludete, sapete meglio di me che non solo nelle arene le si è soliti incontrare, magari riaprire il Colosseo e sottrarlo a quella inutile orda di turisti alla caccia di pietre da rubare!”.
Capo del governo: “Insomma, dentro o fuori le arene la situazione è quella che è. Mi è stato addirittura fatto intendere che si pensa a…”. E qui la voce del povero incaricato diviene un flebile lamento rotto dall’angoscia. “…etta”, riesce a biascicare infine.
Capo dello Stato: “Orsù, necessito una risposta franca dall’amico e dal professionista specchiato e capace quale siete. Ritorna sulla tua decisione e dimmi ora la tua risposta… Quella giusta, per gentilezza!”. Urge notare il fine switch linguistico operato dal nostro presidente che, nell’ora della fatidica domanda, si rivolge al suo interlocutore non più con il formale Lei, ma con un accorato Tu.
Il capo del governo incaricato barcolla sotto i colpi della fiducia incondizionata, fa per fuggire, sta per richiamare l’usciere quando un sussulto interiore lo riporta al cospetto del capo dello Stato, cui riesce a malapena a sussurrare: “Ma quelle due sgallettate, devo proprio? E poi quello che diceva di avere il ministero con le maggiori risorse economiche d’Italia e nemmeno è riuscito a far riaprire i teatri… Sergio, scusami…”. Rompe in lacrime. “Credo di trasferirmi in Uganda con la famiglia per trascorrervi una meritata vecchiaia. Almeno lì le fiere le vedrò nei safari comodamente protetto dalla mia jeep grigio metallizzata”.
Capo dello Stato, lasciando trasparire un velo di mal sopportazione dal volto scolpito: “Via, almeno per gestire il Recovery, per le vaccinazioni, suvvia!”.
Capo del Governo incaricato: “Beh, si comincia con una missione e poi si sa come si va a finire presidente non insista!”.
Capo dello Stato: “Per pararci il culo!”, sbattendo il pugno sulla preziosa scrivania settecentesca. “Ora è più chiaro?”.
Il capo del governo asciuga le lacrime e si mette sull’attenti meccanicamente: “Se il Paese chiama, chiedo una verifica con le forze parlamentari per verificare quanto sono affamate…”. Esce senza chiamare l’usciere, né salutare il capo dello Stato, che appoggia sulla scrivania settecentesca ormai incrinata il capo canuto e si scioglie in un pianto dirotto che presto cede il posto a una risata satanica.
Resoconto dell’incontro di accettazione ufficiale.
Il capo dello Stato è in vestaglia, mollemente adagiato su una comodissima dormeuse fin de siecle, attorniato da inservienti che gli passano miriadi di cellulari silenziati e, di tanto in tanto, una fetta di pane imburrato con la marmellata. A questo dettaglio è legata la poca comprensibilità di alcune battute pronunciate dall’esimio nel corso della masticazione. Entra il capo del governo, accigliato ma fiero.
Capo del governo: “Posso leggerti la lista, Sergio, ma non ne sarai fiero come speravi”. A questo punto, il capo del governo toglie il cappello e poggia il soprabito per aprire la ventiquattrore di cuoio nero, rivelando così i segni inequivocabili della feroce battaglia: sul capo, appena sopra l’osso frontale, uno squarcio non profondo, ma ampio rivela un attacco particolarmente riuscito della partitocrazia, il bell’abito doppiopetto fumé, squarciato in più parti, lascia intravedere il corpo martoriato dai colpi dell’opposizione anche interna. Ma è quando il capo del governo porge la lista dei ministri al capo dello Stato che rivela la ferita più atroce; il palmo intero della mano del capo del governo è marchiato dal segno del morso feroce del leader Cinquestelle: quella dentiera finto-moderna dall’impianto anacronistico è inconfondibile. Il capo del governo mostra la mano e dice sottovoce umiliato: “Tutta colpa di Rousseau!”.
Capo dello Stato: “Il filosofo?”.
Capo del governo: “La piattaforma, ahimè!”.
Il capo dello Stato, ieratico, prende il fazzoletto della colazione, immacolato, lo bagna in un prezioso unguento orientale e lo poggia sulla mano martoriata del capo del governo di emergenza nazionale, mentre oltre le finestre del Quirinale si alzano cori di santificazione per il capo del governo che delicatamente accetta il conforto del capo dello Stato, legge tremante la lista, si stupisce che l’altro non abbia nessuna eccezione, si fa precedere dall’usciere riapparso dal nulla, mormora tra sé “Quella gran zoccola della Von der Layen!”, asciuga il ciglio umido e rivolge un secco comunicato alla folla di giornalisti assiepati oltre il portone sorvegliato dai soliti corazzieri dimezzati.
Continua…

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