“Dobbiamo rafforzare la medicina del territorio, le App sono utili ma servono gli uomini”. A dirlo non è uno qualunque, ma Giovanni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità. La frase l’ha pronunciata l’altro giorno, durante la quotidiana conferenza stampa che la protezione civile tiene alle ore 18. “Non ci sarà contagio zero – ha proseguito Rezza, lasciando poco spazio a speranze e illusioni -– dovremo mettere toppe in continuazione dando per assunto che il virus continuerà a circolare. Ogni volta che si creeranno dei cluster dovremo essere prontissimi a identificarli e a contenerli”.
Un futuro non proprio tranquillo, in cui, dopo aver decongestionato ospedali e, in particolare, le terapie intensive, dovremmo consolidare l’assistenza sul territorio, con il rafforzamento dei distretti, in questi anni depotenziati, e soprattutto non tenendo fuori dal comparto decisionale i medici di famiglia, oramai sempre più burocrati che dottori. “L’ospedale deve essere un luogo dove si fa l’urgenza e la complessità, la cronicità la devi tener fuori”, spiega a Il Mattino Mauro Mazzoni medico di famiglia e coordinatore nazionale del sindacato Fassid. Il ridimensionamento di questi ultimi anni della medicina attuata sul territorio è un danno che stiamo pagando con questa crisi. Non ci sono infettivologi o sono pochissimi perché non c’è stato alcuno sbocco professionale e ci troviamo di fronte alla continua mancanza di mascherine. In queste condizioni “possiamo parlare di App e tracking digitale?”, si chiede ancora Mazzoni.
“In questa emergenza il territorio non è stato proprio considerato – afferma sempre a Il Mattino il presidente dell’Ordine dei medici di Milano Roberto Carlo Rossi – si è arrivati all’assurdo che le ricette dei farmaci le facevano in ospedale”. Dalla Lombardia arriva dunque una conferma di quanto affermato dal dottor Ferdinando Petrazzuoli nell’intervista a Il Crivello, in cui veniva evidenziato come puntare troppo “su una terapia ospedalocentrica” porti a “tanti casi di infezione all’interno degli ospedali e nelle case di riposo”.
“Il piano è stato solo puntare sull’ospedale – ha ribadito Rossi – e correre a fare rianimazioni e terapie intensive. Così migliaia di medici, non solo quelli di famiglia, ma anche quelli nelle Rsa per anziani e nei reparti ospedalieri non Covid sono stati lasciati a curare i pazienti, senza protezioni e senza una strategia. Questo ha alimentato il contagio”, è stata l’amara conclusione.
Infine, le Unità speciali di continuità assistenziale e la terapia domiciliare. Le Usca sono attive, almeno sulla carta, in 12 regioni italiane, tra cui la Campania. Squadre di medici e infermieri che dovrebbero recarsi a casa per acquisire notizie e dati sullo stato di salute dell’ammalato, confrontarsi con i medici di famiglia e il cosiddetto team Covid, formato da specialisti. Non fanno tamponi, né prescrivono farmaci. Un organo che, dove è partito realmente (nella nostra regione c’è ma non si vede, tranne in qualche distretto) sembra già avere le armi spuntate. Decongestionare gli ospedali, rafforzare i distretti, dare voce in capitolo ai medici di famiglia, capire a cosa servono le Usca. Un cammino ancora lungo. La medicina del territorio può attendere, nonostante il Coronavirus.