L’odore di gelsomino è forte, inebriante. Nonostante la mascherina, fedele compagna di viaggio, arriva direttamente alle narici rendendo meno angusto il caldo asfissiante di metà agosto, la prima estate con il Covid-19. Neppure il latte di mandorla del bar del centro, fresco e saporito, ristora come quel profumo. Abbassando per un attimo sul mento il dispositivo di protezione contro il Coronavirus per assaporare la gustosa bevanda, se ne sente tutta la fragranza. Poggiato il bicchiere sulle labbra e alzato lo sguardo verso l’alto uno striscione nero listato a lutto impatta agli occhi: “Paolo. Chi ha avuto l’onore di conoscermi, non avrà mai il piacere di dimenticarmi”, c’è scritto. Siamo a Terrasini; venti minuti prima un affollato volo low cost partito da Napoli ci ha fatti scendere all’aeroporto Falcone-Borsellino di Palermo. Parte dalla piccola cittadina di pescatori la personale ricerca dei luoghi della memoria, quelle località della Sicilia occidentale che hanno visto protagonisti uomini morti ammazzati in conseguenza della loro lotta contro la mafia. A Terrasini la prima meta da raggiungere è la sede di Radio Aut, fondata negli anni Settanta da Peppino Impastato per denunciare i potenti mafiosi del paese in cui viveva, Cinisi, a pochi chilometri dalla terra che stiamo calpestando. Il manifesto listato a lutto, però, incuriosisce. Chi è Paolo? Siamo nel 2020, ma evidentemente certe dinamiche fanno fatica a morire. Alle domande poche risposte; bocche cucite e tanto imbarazzo. Internet è sempre una fonte inesauribile di notizie e i giornali locali raccontano di una delle tante vicende di violenza: Paolo La Rosa era un giovane di 21 anni ed è stato sgozzato sotto gli occhi della sorella lo scorso mese di febbraio. A ucciderlo il cugino del fidanzato della ragazza, per futili motivi. Paolo non voleva che la sorella frequentasse quelle persone e ciò gli è costato la vita.
A Terrasini gli amici gli hanno dedicato un murales; era ben voluto e stimato da tutti perché, oltre a essere un lavoratore instancabile, si teneva fuori dai giri loschi. Il bicchiere con il latte di mandorla è ormai vuoto, il conto pagato. Il cameriere, nonostante la mancia, dice di non sapere dove è collocato il murales e in questo caso Internet non ci può essere d’aiuto, bisogna arrangiarsi e sperare che qualcuno abbia voglia di indicarci il luogo preciso. Ci riusciamo: alla fine il dipinto è a pochi passi, alle spalle di un noto locale, e allo sguardo non lascia indifferenti. I colori sono nitidi e forti; il disegno dell’isola sul collo del ragazzo, a torso nudo e di spalle, è l’emblema di un popolo, fiero delle proprie origini, nonostante, ancora oggi, si viva sotto la cappa del potere mafioso.
Il caldo con il passare delle ore si fa sempre più insopportabile, la maglietta è zuppa, ma prima di trovare refrigerio c’è da visitare il palazzetto che ospitava la radio di Impastato. In questo caso le indicazioni sono puntuali e arrivano da un vigile urbano: “La potete vedere solo dall’esterno, però, è chiusa”. Ed è proprio così; la struttura da dove Peppino metteva paura ai mafiosi locali è sbarrata. All’esterno è stata ristrutturata e una targa ne ricorda i trascorsi; niente di più. È giunto, quindi, il momento di una pausa al fresco e in aiuto ci arriva l’automobile noleggiata all’aeroporto, una vecchia Opel Zafira usurata dal tempo e dagli innumerevoli guidatori che l’hanno utilizzata. “Non tenga conto delle tante spie accese sul cruscotto, la macchina non si ferma mai, stia tranquillo”. Le parole inquietanti di un dipendente della società di noleggio si sono rivelate successivamente veritiere. Non solo la vecchia Opel, nonostante sembrasse continuamente sul punto di collassare, non si è mai fermata, ma l’aria condizionata ha funzionato alla perfezione. Per le prestazioni inaspettate lungo tutto il viaggio la Zafira si è guadagnata il nomignolo di La Poderosa, come fu battezzata la motocicletta Norton 500 con la quale Ernesto Che Guevara e Alberto Granado, nel 1952, esplorarono parte del continente latino-americano.

Da Terrasini a Cinisi bisogna attraversare poco più di quattro chilometri di asfalto bollente per arrivare alla casa natale di Peppino Impastato. La città è deserta, complice il periodo estivo; i residenti sono tutti in spiaggia e le visite al museo dedicato al giornalista sono contingentate, a causa del Covid-19. Alcune piastrelle in ceramica, con scritte antimafia, ricostruiscono il famoso percorso dei cento passi, che dividono l’abitazione di Impastato da quella del boss Tano Badalamenti. Percorrendo il tragitto vengono in mente le scene del film di Marco Tullio Giordana, dove un bravissimo Luigi Lo Cascio interpreta magistralmente il giornalista assassinato dalla mafia. All’ingresso della casa manifesti e foto tappezzano i muri, ripercorrendo la vita di Peppino. Insieme a una ragazza di un’associazione di volontariato, che accoglie le scolaresche in visita, c’è Giovanni Impastato, il fratello di Peppino. Non è di buon umore, preoccupato per l’avanzare del Coronavirus in terra siciliana degli ultimi giorni, teme ripercussioni sul regolare afflusso dei visitatori. Si congeda velocemente, una serie di incombenze lo attende, lasciandoci in compagnia della volontaria.
“Non è facile portare avanti il discorso della legalità qui da noi”, risponde la ragazza a domanda precisa e sembra quasi pentita di essersi esposta. Poi corregge il tiro: “Chiaramente i tempi sono diversi rispetto a quando era vivo Peppino, ma le persone del posto sembrano ancora essere assopite”. Nella casa si respira a pieni polmoni l’atmosfera di quei tempi. Tutto è fermo agli anni Settanta; entrando nella stanza di Peppino sembra quasi scorgerlo, mentre è intento nelle sue letture progressiste o è impegnato a suonare la chitarra. Ma la presenza che maggiormente si percepisce è quella della madre Felicia; grazie al suo amore per quel figlio barbaramente ucciso dai criminali è riuscita a rubare un lasso di tempo, imbalsamandolo dentro quattro mura.
Lasciare casa Impastato non è semplice, ma il viaggio è lungo e La Poderosa è ferma già da un po’. Uscendo da Cinisi percorriamo quel tratto di strada con il passaggio a livello e i binari dove Impastato fu aggredito dai mafiosi. Il sole è ancora alto, ma l’occhio involontariamente va a posarsi sullo specchietto retrovisore e un brivido scende spontaneo lungo la schiena. Un flash back che si ripete sull’autostrada, in direzione Palermo, dopo aver abbandonato il paese. Nelle vicinanze dell’uscita di Capaci un monumento a forma di stele ricorda la strage del 23 maggio del 1992, l’attentato compiuto da Cosa Nostra per uccidere il magistrato antimafia Giovanni Falcone.
Gli attentatori fecero esplodere un tratto della A29, mentre vi transitava sopra il corteo della scorta con a bordo il giudice, la moglie e gli agenti di polizia, sistemati in tre Fiat Croma blindate. Oltre a Falcone, morirono altre quattro persone: la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Vi furono 23 feriti, fra i quali gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Le auto oggi sfrecciano veloci, come se quell’asfalto ventotto anni fa non fosse mai saltato in aria. Di tanto in tanto, nella piazzola di sosta, qualcuno si ferma; selfie di rito e poi via, di corsa, in una delle due direzioni.

Arrivati a Palermo ci attendono diverse tappe: a via Notarbartolo, zona residenziale della città, c’è una grossa magnolia, che sembra fuoriuscire dal palazzo dove abitava Falcone. Quell’albero dal giorno dell’assassinio del magistrato si è arricchito di innumerevoli messaggi, fotografie e altri piccoli oggetti, che ne hanno fatto un vero e proprio luogo della memoria. Il via vai di persone è notevole, in tutte le ore del giorno, un pellegrinaggio, come se fosse un luogo sacro. Palermo si nutre di simboli, da quelli culturali a quelli storici, da quelli religiosi a quelli profani. La città sembra vivere di una luce magica nel suo centro nevralgico, con la cattedrale, il palazzo reale, i teatri, per poi trasformarsi in una grande periferia al di fuori di questo cerchio.
L’altro albero della memoria è in via D’Amelio, dove il 19 luglio del 1992, a quasi due mesi dalla strage di Capaci, venne ucciso il magistrato Paolo Borsellino, amico fraterno di Falcone. Una Fiat 126 rubata contenente circa 90 chilogrammi di esplosivo, telecomandati a distanza, esplose sotto il palazzo dove all’epoca abitavano Maria Pia Lepanto e Rita Borsellino (rispettivamente madre e sorella del magistrato); il giudice quella domenica era andato a fare visita alla famiglia. Oltre a Borsellino, persero la vita i cinque agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu l’agente Antonino Vullo, risvegliatosi in ospedale dopo l’esplosione, in gravi condizioni.
Anche l’albero della pace dedicato a Borsellino è pieno di messaggi, oggetti e fotografie. Per arrivarci, con La Poderosa, si è attraversato il Foro Italico, una grande area verde che forma uno dei lungomari di Palermo. Si estende dalla Cala a villa Giulia, nel quartiere Kalsa. Il giardino, interamente pedonale, occupa circa 40mila metri quadri a manto erboso, con piante mediterranee di vario genere, viali alberati, panchine, sculture in ceramica, un percorso ciclabile, l’illuminazione notturna e un’ampia passeggiata panoramica lungo la costa. La sosta alla cattedrale, oltre all’immancabile visita alla tomba di Federico II, ci permette di omaggiare da vicino un altro simbolo della memoria: don Pino Puglisi, presbitero, educatore e attivista italiano, ucciso nel 1993 da Cosa Nostra il giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, per il suo costante impegno evangelico e sociale che infastidiva la mafia. Il 25 maggio 2013, sul prato del Foro Italico, davanti a una folla di circa centomila fedeli, è stato proclamato beato. La celebrazione è stata presieduta dall’arcivescovo di Palermo, cardinale Paolo Romeo, mentre a leggere la lettera apostolica con cui si compie il rito della beatificazione è stato il cardinale Salvatore De Giorgi, delegato da papa Francesco. Don Puglisi è stato il primo martire della Chiesa ucciso dalla mafia.

Fuori la cattedrale il sole picchia forte e una granita al pistacchio è l’unico sollievo contro la calura; seduti al bar senza la mascherina ritorna l’intenso profumo di gelsomino, un marchio di fabbrica dell’isola siciliana. Il viaggio volge ormai al termine, ma c’è ancora tempo per fermarsi su una panchina di villa Bonanno, il giardino pubblico dove è stata apposta una targa commemorativa del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nel 1982 venne nominato prefetto di Palermo con l’incarico di contrastare Cosa Nostra, così come aveva fatto nella lotta al terrorismo. Fu ucciso nella città siciliana pochi mesi dopo il suo insediamento nella strage di via Carini, dove perirono anche la consorte Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.

Il tempo stringe, ancora poche ore e il volo di ritorno ci riporterà a Napoli, ma manca un ultimo luogo da visitare, una cittadina che chiude il cerchio tra presente e passato. Isola delle Femmine è un piccolo comune di 7mila abitanti, sito alle pendici di pizzo Mollica e montagna Raffo Rosso e comprende l’omonimo isolotto, detto anche Isola di Fuori. È a due passi dallo svincolo di Capaci dove è stato assassinato Falcone. Secondo la leggenda il nome deriverebbe dalla torre, ormai in gran parte diroccata, che sovrasta l’isolotto, un avamposto utilizzato come carcere per sole donne. Qui, oltre al famoso gemellaggio con la città californiana di Pittsburg, che dà il nome anche a uno slargo sul lungomare, si ricorda Vincenzo Enea, l’imprenditore edile ucciso dalla mafia nel lontano 1982, a soli 47 anni. Spulciando su Internet, un articolo de Il Giornale di Isola ne ricostruisce la storia.

“Alle 8 di quel lontano 8 giugno 1982 – è scritto – alla stazione dei carabinieri arrivò la notizia dell’uccisione del proprietario del lido ‘Village Bungalow’, Vincenzo Enea. Immediatamente il maresciallo Vincenzo Lo Bono accorse sul luogo, trovando la Renault di Enea e il suo cadavere, crivellato di colpi e in una pozza di sangue. Come riporta la sentenza di condanna del suo omicida, ‘Enea Vincenzo veniva descritto dai più come uomo mite e remissivo, sempre pronto ad aiutare chi si trovasse in difficoltà’, ma i carabinieri si scontrarono contro ‘il muro di omertà delle persone sentite’. Le indagini non portarono a nulla e, dopo una serie di archiviazioni e riaperture del caso, solo nel 2010, a seguito delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Gaspare Mutolo, Francesco Onorato e Rosario Naimo, il sostituto procuratore Del Bene ha deciso di riaprire il caso, riuscendo a far condannare per l’omicidio il killer Francesco Bruno”.

Quel cerchio tra presente e passato si chiude proprio in una parola: omertà. Dagli omicidi illustri della mafia alle vittime sconosciute, fino ai giorni nostri, con l’assassinio del giovane Paolo La Rosa, vittima della criminalità minore, il filo conduttore è sempre lo stesso: “Mi dispiace, non so nulla della storia di Enea, posso dirle solo che era un brav’uomo”. Sono le ultime parole carpite dagli abitanti del posto. Il viaggio è davvero finito, il volo è in partenza tra due ore. Consegnando La Poderosa in aeroporto si vive una strana sensazione, quella di lasciare una parte di sé in quel luogo. L’auto è la metafora del popolo dell’isola: donne e uomini resilienti costretti a vivere nella precarietà sociale, con la speranza, mai doma, di farcela, sognando, di nascosto, una Sicilia migliore.
(Le foto sono di Ignazio Riccio)
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