Una pelle giovane per sempre. Grazie a una riprogrammazione genetica parziale, è possibile ringiovanire le cellule della pelle, quanto basta, per cancellare i segni dell’invecchiamento e riconquistare il vigore di una volta. Il risultato, che apre nuovi scenari per la medicina rigenerativa e la lotta contro l’invecchiamento, è pubblicato sulla rivista eLife dai ricercatori del Babraham Institute in Gran Bretagna.
Per ringiovanire le cellule della pelle chiamate fibroblasti, i ricercatori hanno usato la tecnica di riprogrammazione cellulare messa a punto dal premio Nobel Shinya Yamanaka per trasformare cellule mature e differenziate in cellule staminali pluripotenti indotte.La tecnica, però, è stata ‘rivisitata e corretta: i ricercatori hanno infatti usato lo stesso cocktail di proteine ringiovanenti (Oct4, Sox2, Klf4 e cMyc, meglio note come ‘fattori di Yamanakà), ma lo hanno somministrato alle cellule per soli 13 giorni invece dei canonici 50. Le cellule così parzialmente riprogrammate hanno perso tutti i segni dell’età e, solo temporaneamente, anche la loro identità.
In un secondo momento sono state coltivate in condizioni normali e così hanno avuto modo di riacquisire la loro identità di cellule della pelle (con un meccanismo che però è ancora tutto da scoprire) e sono tornate a produrre collagene proprio come le cellule più giovani. I ricercatori le hanno messe alla prova simulando una ferita. Hanno così scoperto che i fibroblasti ringiovaniti migrano verso il taglio più velocemente di quelli non trattati: un segnale promettente per la medicina rigenerativa, almeno per quanto riguarda la guarigione delle ferite.
Ma non è tutto: dalle analisi genetiche, i ricercatori si sono accorti che il loro metodo ha qualche effetto anche su alcuni geni legati a malattie dell’invecchiamento. Per esempio, hanno osservato qualche cambiamento nel gene APBA2, associato anche all’Alzheimer, e nel MAF, coinvolto nella cataratta. Questi dati sono promettenti, ma ancora i meccanismi dietro al nuovo metodo di riprogrammazione sono ancora da chiarire. Sarà necessario del tempo, forse anche molto, ma a detta degli autori la nuova strada di ricerca potrebbe aprire un “sorprendente orizzonte terapeutico”.