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Home Società

Siamo davvero pronti a rimuovere le statue della discordia?

Dietro l'abbattimento di monumenti dedicati a personaggi controversi potrebbe celarsi una riflessione più profonda di quanto i contestatori stessi credano

Giuseppe Scuotri di Giuseppe Scuotri
21 Giugno 2020
in Società
statue

Volgendo lo sguardo ai secoli passati, ci si accorge che un numero consistente di scoperte e cambiamenti epocali, nei più diversi campi dello scibile umano, siano state originate da un caso fortuito o, meglio ancora, da uno sbaglio. In alcune di queste circostanze, in aggiunta, all’errore iniziale si è accompagnata anche l’incapacità dell’autore di riconoscere l’importanza del proprio traguardo, spesso in virtù di strumenti e conoscenze ancora troppo limitati. Un esempio noto, in tal senso, è senza dubbio quello di Cristoforo Colombo: tra le molte questioni irrisolte che aleggiano attorno alla sua vita, la storia racconta che quando lo scopritore delle Americhe salpò verso ponente con due caravelle e una caracca, stesse in realtà cercando una nuova rotta per l’Asia. Proprio Cristoforo Colombo è stato uno dei grandi ‘precursori’ del dibattito sulla rimozione di statue dedicate a personaggi storici controversi che, in queste settimane, sta animando una discussione pubblica internazionale: già in passato, in virtù dei suoi opachi trascorsi da governatore delle Indie, i monumenti a lui dedicati negli Stati Uniti erano stati messi alla sbarra e vandalizzati. Oggi, quegli stessi argomenti sono fragorosamente riemersi in occasione delle manifestazioni di protesta seguite alla morte di George Floyd: sull’onda dell’indignazione contro ogni forma di razzismo, molti attivisti hanno scagliato la loro rabbia contro sculture e lapidi che, a loro dire, non meritavano di essere esposte in luoghi pubblici.

statue
La statua di Edward Colston a Bristol

Una delle prime teste a cadere è stata quella dell’inglese Edward Colston, mercante di schiavi e benefattore di Bristol celebrato dai propri concittadini con una statua bronzea, abbattuta e gettata nelle acque del porto lo scorso 7 giugno. In Italia, bersaglio di atti di vandalismo e polemiche analoghe è divenuto il monumento milanese dedicato a Indro Montanelli, a cui una buona fetta di persone non perdona il passato da colonialista durante il Ventennio e, in particolar modo, l’acquisto di una sposa bambina di appena 12 anni in Eritrea. Fatti storici accertati, sia per Colston sia per Montanelli, che nessuno sano di mente sarebbe in grado di negare. Molto si è detto sull’argomento in questi giorni: come sempre accade in questi casi, le tesi si sprecano su entrambi i fronti, tra apologie di atti vandalici e appelli alla contestualizzazione storica. È ingiusto e superficiale, a parer mio, dismettere tali nuove istanze come semplice isteria di massa e ossessione per il politicamente corretto: queste sono spiegazioni valide e sufficienti solo per una parte degli episodi in esame. Esulando dal vandalismo fine a se stesso, nelle azioni di chi avanza democraticamente tali proposte esiste una coerenza, quantomeno storica, che merita di essere approfondita con serietà. Da sempre, infatti, nel corso della civiltà umana, al mutare dell’etica e dei governi si sono abbattuti monumenti divenuti ideologicamente obsoleti o fastidiosi: è un effetto collaterale ben assodato dei grandi cambiamenti e delle rivoluzioni.

Bisogna utilizzare questa chiave di lettura anche oggi, dunque? In aiuto dei nuovi contestatori giunge, inaspettatamente, la lezione di Cristoforo Colombo: il vero problema di fondo negli argomenti di quanti caldeggiano l’abbattimento di statue controverse sta nel fatto che, nella maggior parte dei casi, non sembrano avere idea della complessità e della portata della questione che sollevano. Pongono, in sostanza, degli interrogativi ai quali non sono – e non siamo – in grado di fornire una risposta coerente e ampiamente condivisa. Può sembrare un’esagerazione, ma il cambiamento di prospettiva che queste rimozioni sottendono è talmente profondo da necessitare di fondamenta robuste e ben piantante nel terreno. Tutte le grandi rivoluzioni della storia, anche le più cruente e radicali, hanno affondato le loro radici in un profondo e ricco humus filosofico: uno stravolgimento violento come la Rivoluzione francese è giunto alla fine di un secolo, il Diciottesimo, segnato dalla comparsa e dalla diffusione di idee nuove e di rottura. È l’esistenza di questo solido scheletro culturale a proteggere i grandi cambiamenti dalle loro fisiologiche degenerazioni: oggi, nonostante il terrore, i ghigliottinamenti di massa e la restaurazione, è proprio l’illuminismo, allora corrotto nel sangue del fondamentalismo, a rendere quel pezzo di storia francese un avvenimento tanto significativo agli occhi di un contemporaneo.

Il monumento dedicato a Winston Churchill a Londra

Tale ragionamento è applicabile anche a movimenti più recenti come il Sessantotto americano, spesso opaco e contraddittorio, ma abbeveratosi alla fonte dei grandi autori Beat come Kerouac e Ginsberg. Evasa agilmente la pratica di Edward Colston e Robert Milligan in Inghilterra, riusciranno i contestatori italiani a risolvere il conflitto interiore, ancora vivo in tanti connazionali, nei confronti dell’esecrabile passato fascista di Montanelli e di molte altre grandi personalità del Novecento? Possono davvero una richiesta dei Sentinelli e un barattolo di vernice rossa, rivendicato come invito alla riflessione dai propri autori, sostituirsi ad anni di ben più impegnativi dibattiti etici e culturali? E, ancora, quando si sveste di carne una persona per farne un personaggio di marmo, si può tralasciare l’uomo a tutto tondo in nome di un singolo ideale che esso ha incarnato? Può il Churchill vincitore della Seconda guerra mondiale essere vilipeso e rimosso in nome del Churchill colonialista? Se sì, non dovremmo applicare tale nuova iconoclastia anche in senso diacronico, mettendo in discussione anche le effigi pubbliche di personaggi dall’etica obsoleta ma provenienti da un passato ormai remoto e indolore, come Colombo o Giulio Cesare? Riusciranno i belgi ad aprire un dibattito serio su Leopoldo II, il monarca responsabile di milioni di morti in Congo? Sono interrogativi legittimi, che toccano corde profonde e sconvenienti della coscienza occidentale, ma che non possono essere risolti sui social network. Forse, non siamo ancora al punto di poter scendere in piazza e abbattere statue, almeno non ancora.

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