Giornalista professionista, caporedattore centrale del quotidiano Il Mattino, tra i fondatori del Corriere del Mezzogiorno, ex sindaco di Marcianise. Con Antonello Velardi Il Crivello inaugura l’approfondimento sui ‘Testimoni di terre campane’, una serie di incontri con chi sa riconoscere pregi e difetti del territorio in cui è nato e vive, e li racconta, senza filtri. Velardi parla in maniera schietta della provincia di Caserta, con il giusto rammarico per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, indicando di chi è la colpa di uno sviluppo decadente, perché disordinato e clientelare.
Quali sono i limiti e le potenzialità di un territorio come Terra di Lavoro, sospeso fra la grande conurbazione napoletana e il provincialismo della sua classe dirigente?
“Terra di Lavoro ha una straordinaria potenzialità, mi riferisco in particolare all’area che va da Capua fino ai confini con il Napoletano. È forse l’area del Mezzogiorno interessata, a partire dagli anni Settanta, al maggiore processo di cambiamento. Esso però non è sempre coinciso con lo sviluppo per l’incapacità delle classi dirigenti che si sono succedute di governare il processo stesso, orientandolo verso una compiuta definizione. Da qui numerosi fenomeni distorsivi di tale processo, come la devastazione urbanistica e successivamente l’inquinamento ambientale. È mancata una regia, il limite sta qui. Questo territorio è parte essenziale della grande area metropolitana di Napoli, ma della metropoli ha assorbito pochissimi pregi e quasi tutti i difetti. Quando parlo di classi dirigenti, non mi riferisco solo alla politica, ma anche alla borghesia delle professioni, alla scuola, all’università, alla Chiesa. E anche all’informazione”.
C’è da affrontare una situazione economica e del lavoro resa più drammatica dal Covid-19. Vede spiragli per una ripresa delle attività o da qui in avanti ci dobbiamo aspettare altri casi simili alla Jabil?
“Vedo spiragli, ma molto indecifrabili e indefinibili. In genere, ogni crisi che si innesta su un tessuto socio-economico già fortemente lacerato determina ulteriori strozzamenti dello sviluppo e quindi fa emergere le negatività soffocando le positività. È ciò che temo anche per questo territorio. D’altronde, il caso Jabil è emblematico da questo punto di vista: salta un sito industriale che si porta dietro tutte le problematiche di lunghi anni difficili, un sito che già aveva grosse difficoltà a immaginare un proprio futuro e ad aggredire spazi di mercato. Quando parlo delle difficoltà penso alla dequalificazione delle maestranze, ma anche all’incapacità di una classe imprenditoriale che è tale solo a parole, rapace e votata al mero assistenzialismo”.
La criminalità, sempre presente anche se non spara, secondo lei rischia di rientrare prepotentemente in gioco, favorita dalla crisi economica e da una classe dirigente locale ancora troppo permeabile alle sue lusinghe?
“Non è un rischio, è una certezza. Il fenomeno è globale, sarebbe irrealistico pensare che proprio qui la criminalità faccia un passo indietro. Proprio qui, nei territori che sono la culla della criminalità imprenditrice che ha saputo esportare modelli operativi in tutta Italia e in tutto il mondo. Solo uno sciocco si può illudere che i clan, nella nuova forma che nel frattempo hanno assunto dopo una forte ma tardiva azione repressiva, stiano ora al loro posto e non cerchino nuovi spazi, non foss’altro per realizzare una rivincita nella gara a distanza con lo Stato. Qui lo Stato è culturalmente visto come altro, come identità distinta da se stessi”.
C’è un’altra considerazione da fare sulla provincia di Caserta e riguarda le zone d’ombra del rapporto fra la politica collusa e una certa informazione. È un aspetto non nuovo. Secondo il suo parere è ancora forte questo legame e quanta influenza ha sull’opinione pubblica?
“Le ultime vicende ci hanno confermato quello che non era un sospetto, ma una certezza. Certa informazione in provincia di Caserta è completamente asservita a interessi opachi, trasversali, illegali, e fa da balia a certa politica che ha le stesse caratteristiche. C’è un meccanismo di vasi comunicanti, con un rapporto causa ed effetto che è bilaterale. Ciò ha determinato una narrazione dei nostri territori completamente piegata dagli interessi di parte, in una grande marmellata dove il bianco e il nero si confondono ed è tutto grigio. La cosiddetta zona grigia nel frattempo si è espansa in misura illimitata, non facendo più da cuscinetto ma invadendo tutto il terreno: qui la situazione è peggiore che in Calabria, luogo di simbolica arretratezza. L’informazione assoldata ha usato i mezzi di comunicazione più facili da manovrare e con maggiori effetti sull’opinione pubblica, il web e i social. Colpisce come tutto ciò sia potuto avvenire in una sorta di immunità permanente, quasi come se questa azione fosse funzionale a un disegno complessivo di demolizione del bianco per far emergere il nero. Se ciò è avvenuto, ed è avvenuto, vuol dire che nei nostri territori non è forte l’antitesi tra Stato e anti-Stato, anzi lo Stato molte volte è dalla parte sbagliata e ciò accentua quel dato culturale che fa percepire le istituzioni come nemiche e non protagoniste di un processo di modernizzazione e liberazione da antiche schiavitù”.
In tutto questo gli uomini e le donne di cultura che potrebbero dare lustro non sono presi in considerazione dalle istituzioni politiche e imprenditoriali locali, ma anche l’Università pare che svolga il ruolo di attore non protagonista nelle scelte importanti per il rilancio del territorio. Come si può ovviare a tali significative assenze?
“Allo storico serbatoio della cosiddetta società civile ormai la politica attinge sempre di meno, essendo in crisi ed essendo frequentata da professionisti che difendono il proprio orticello; ciò avviene ovunque, ma in provincia di Caserta molto di più. Pensate a molti esponenti politici dei nostri territori al di fuori della politica: sarebbero ultimi nel mondo delle professioni, dell’imprenditoria, ovunque. Ovviamente la cosiddetta società civile ha le sue colpe perché non fa nulla per farsi ascoltare, anzi molte volte sceglie la strada più semplice del collateralismo clientelare distribuendo prebende e ricevendone. Il fallimento dell’Università in provincia di Caserta sta tutto qui, nell’incapacità di sapersi rapportare nel modo giusto al territorio, alimentando processi virtuosi. C’è un problema di qualità dell’accademia che non è certamente quella cui pensavano coloro che, ormai trent’anni fa, inseguivano l’idea di un polo universitario anche nella nostra provincia. È il motivo per cui i giovani più preparati se ne vanno: qui vengono osteggiati, altrove vengono valorizzati. Questo è il peggiore peccato che possa commettere una comunità, e cioè uccidere il proprio futuro”.
Per tutto quanto abbiamo detto, secondo lei ci sono differenze fra la provincia di Caserta e le altre province della Campania?
“Se ci sono differenze sono tutte in negativo. Qui le criticità delle altre province sono amplificate, molto più evidenti per ciò che ho sostenuto all’inizio di questa conversazione: perché qui lo sviluppo c’è stato ma in modo distorto, qui non abbiamo aree di evidente depressione, ma non siamo stati in grado di garantire il contesto giusto per un progresso che fosse equilibrato e di sistema. Il quadro che ne viene fuori è molto deprimente. Ci salvano solo alcune isole, collegate a casi singoli, intraprese da pochi, con il rischio della deriva donchisciottesca. Ma è troppo poco per poter convincere un giovane a non scappare e a restare a combattere qui, in un territorio inquinato dove la regola di base è la clientela e dove la politica svolge una funzione tutt’altro che attrattiva. Occorrerebbe una grande rivolta delle coscienze, ma la vedo lunga e complicata”.
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