Le indagini sulle violenze e sulle torture consumatesi lo scorso anno durante l’epidemia di Covid-19 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sono finalmente giunte a conclusione. La Procura della Repubblica sammaritana ha infatti depositato questo pomeriggio gli atti delle indagini preliminari che vedono coinvolte ben 120 persone, per la maggior parte agenti della polizia penitenziaria i quali avrebbero partecipato attivamente alle rappresaglie in carcere perpetrate con inaudita e immotivata violenza ai danni dei detenuti. In totale, secondo le testimonianze e le dichiarazioni raccolte dai giudici all’interno dell’istituto penitenziario, sarebbero 177 le vittime le quali avrebbero subito a più riprese maltrattamenti, pestaggi e lesioni da parte degli agenti.
Sugli indagati pesano pertanto accuse molto gravi che vanno dai reati di tortura pluriaggaravata a maltrattamenti, passando per l’abuso di autorità, falso in atto pubblico, calunnia, frode processuale, favoreggiamento e depistaggio. Questo il quadro accusatorio completo reso noto dalla Procuratrice Maria Antonietta Troncone la quale ha seguito fin dall’inizio il caso giudiziario. Nell’avviso di conclusione delle indagini emesso oggi dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere emergono ulteriori 87 capi di imputazione, e tra questi emerge anche un capitolo molto grave che riguarda la morte del detenuto Lakimi Hamine avvenuta in circostanze poco chiare il 4 maggio del 2020, alcune settimane dopo la “mattanza”.

Inizialmente la morte del detenuto di origini algerine, il quale soffriva di problemi psichiatrici gravi, era stata derubricata come suicidio, forse nel tentativo di depistare o di insabbiare le prove degli abusi consumatisi dietro le sbarre. Prove che sarebbero poi emerse un anno dopo, in seguito alla pubblicazione dei video che riprendevano i momenti più drammatici e atroci delle violenze. Dopo essere stato percosso violentemente e pestato a sangue, il detenuto fu sbattuto in cella di isolamento come “punizione esemplare” alla sua insubordinazione. Qui la vittima, che soffriva di schizofrenia, fece assunzione senza alcun controllo di un mix letale di farmaci i quali provocarono nel detenuto prima un edema polmonare acuto, poi un arresto cardiaco che gli stroncò la vita.
L’autopsia rivelò la presenza nel sangue di Lakimi di oppiacei, neurolettici e benzodiazepine. Come avrebbe fatto dunque il detenuto a procurarsi e a ingerire in rapida successione ingenti quantità di psicofarmaci senza alcun controllo sanitario nonostante si trovasse in isolamento e controllato 24 ore su 24? Il tutto sarebbe accaduto senza che nessuno se ne accorgesse. Quesito puramente legittimo che si sono posti anche gli inquirenti. Per la Procura, infatti, non ci sarebbe altra spiegazione se non che la morte del detenuto sia avvenuta per omicidio colposo. Di tale grave delitto emerso dalle indagini dovranno ora rispondere Gaetano Manganelli, all’epoca dei fatti comandante della polizia penitenziaria nel carcere sammaritano, l’ex provveditore regionale del Dap Antonio Fullone, attualmente sospeso, e gli agenti che erano di turno nel reparto di isolamento dove la vittima era stata rinchiusa.
La trama, dunque, delle violenze e delle torture consumatesi nel carcere sammaritano, dopo quasi un anno passato nell’omertà e nel silenzio delle vittime, si infittisce sempre di più fino ad assumere contorni sempre più gravi, i quali evidenziano come non si sia trattato di semplici “mele marce” che avrebbero agito in maniera isolata al di sopra e contro la legge, come invece alcuni esponenti politici, evidentemente in malafede oppure poco informati sui fatti, avrebbero voluto far credere, bensì di un intero sistema malato e corrotto volto alla sistematica violazione dei più elementari e balisari diritti umani nonché della dignità stessa dei detenuti rinchiusi nelle celle del carcere in provincia di Caserta.
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