Il contesto estremamente fluido e cangiante dei media audiovisivi contemporanei viene analizzato con puntualità e raffinatezza teorica dallo studioso sannita Mario Tirino in un suo saggio denso e voluminoso intitolato Postspettatorialità. L’esperienza del cinema nell’era digitale (448 pagine, 25 euro), appena pubblicato dalla casa editrice Meltemi con un’illuminante prefazione di un teorico di primo livello come Gino Frezza. Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi politici e sociali dell’Università di Salerno, dove si occupa di sociologia delle culture digitali e teoria dei media, Tirino studia da anni questi fenomeni, sui quali ha già prodotto numerosi saggi in volumi e riviste scientifiche. In questa importante monografia, utilizza il filtro spettatoriale per procedere, però, a un’esegesi approfondita delle mutazioni riguardanti le immagini audiovisive contemporanee.

A partire dai concetti di mediashock, forma culturale ed esperienza mediale, lo studioso campano procede lungo due direttrici complementari, connesse rispettivamente agli aspetti più teorici del fenomeno e a quelli relativi alle pratiche della “postspettatorialità”. Il panorama conoscitivo che emerge dal lavoro di Tirino pone al centro una figura innovativa, capace di andare oltre le tradizionali funzioni dello spettatore novecentesco, per proporsi invece come utente mediale a tutto tondo, attivo e partecipe, in grado di declinarsi, contemporaneamente, come consumatore, programmatore, archivista, produttore, con la propria esperienza socioculturale che, inevitabilmente, si trasforma in qualcosa di inedito, anche soltanto rispetto a pochi anni fa.
Tirino, chi è, dunque, questo “post-spettatore” che lei pone al centro del suo saggio?
“Si tratta certamente di una figura che in questi anni ha subito mutamenti profondi, grazie alle diverse dimensioni nelle quali è assorbito e a quella cultura partecipativa che, in definitiva, oggi lo pone al centro di tutti i processi industriali e culturali dell’entertainment contemporaneo: dalle strategie di promozione all’engagement e alle varie azioni di marketing. Questa centralità si riverbera, inevitabilmente, anche sulla produzione delle varie opere e dei vari prodotti, ormai concepiti fin dall’inizio con un occhio puntato a questa nuova tipologia di utente. Naturalmente, questi cambiamenti epocali hanno rimesso in discussione anche concetti come quello di “autorialità”, che da speculazione intellettuale s’è completamente slabbrato, soprattutto in contesti fortemente industriali come quello del blockbuster hollywoodiano contemporaneo, fino a diventare l’ennesimo potente strumento da utilizzare per attrarre le proprie platee di riferimento. Anche a livello indipendente, il panorama è talmente cambiato da aver prodotto una serie di “nicchie”, di comunità fisiche e online, che in ogni caso pongono al centro l’engagement dello spettatore”.
In un simile contesto, industriale e culturale, un ruolo importante lo occupano le piattaforme di streaming video on demand come Netflix. Lei che ne pensa?
“Penso, innanzitutto, che casi come quello di Netflix pongano agli studiosi di cinema e di media tanti interrogativi e, di conseguenza, richiedano un ampliamento degli strumenti concettuali, poiché se li si affronta da un punto di vista culturologico o critico se ne colgono soltanto alcuni dettagli. Nel mio libro, per esempio, io ho guardato ai platform studies, dato che Netflix prim’ancora che uno spazio di consumo è una piattaforma da considerare nella sua configurazione tecnologica e mediale, che in quanto tale conforma e modella anche ciò che concerne il sentire. Essendo indipendente dai vari dispositivi con i quali se ne fruisce, infatti, riesce a dare luogo a esperienze di visione di volta in volta differenti, in particolare nel rapporto con i due grandi poli della tecnologia e del corpo, che in questo tipo di esperienze di visione si fanno sempre più eterogenei. Poi, va considerato come Netflix produca un’offerta nella quale occupa un ruolo centrale il suo famoso algoritmo, per cui a fronte di un archivio sterminato a ciascun utente vengono proposte poche decine o centinaia di prodotti, che il sistema considera affini a quel particolare spettatore e alle sue predilezioni. Da questo punto di vista, il nostro rapporto con le immagini in movimento viene fortemente limitato e rischia di produrre un circuito che si autoriproduce. Da un altro punto di vista, però, questo tipo di piattaforme hanno ampliato a dismisura i confini di audience potenzialmente globali anche nei confronti di prodotti indipendenti o realizzati in contesti geografici fino a qualche anno fa assolutamente periferici rispetto alle logiche dell’industria audiovisiva. Si tratta, quindi, di un fenomeno affascinante e di grande complessità“.

Tirino, nel suo libro c’è anche un capitolo sulla pirateria audiovisiva molto interessante e che sembra fatto apposta per sfatare molti miti e preconcetti.
“Oggi, siamo nel bel mezzo di una vera e propria guerra tra piattaforme, con Netflix, Amazon, Disney, Apple, Warner e altri a combattere per la supremazia. Io credo che alla fine potremmo trovarci di fronte a due possibili scenari: o un oligopolio con un paio di soggetti a dominare il mercato, oppure una rinascita della pirateria o, come amo chiamarla io, distribuzione informale. Nei confronti di questo tipo di distribuzione, da anni, è sempre stato portato avanti un dibattito basato su posizioni ideologiche ed è stata operata una criminalizzazione che non ha mai considerato il fenomeno come la pratica culturale che, in realtà, è sempre stata. Tra l’altro, anche le pochissime ricerche empiriche prodotte sul tema hanno dimostrato come non sia affatto vero che una copia scaricata illegalmente di un determinato prodotto di entertainment ne danneggi le vendite legali. Anzi, in realtà motiva il pubblico già fidelizzato e può produrre addirittura nuove audience, tanto da poter essere legittimamente considerato non come alternativo alla vendita legale, ma addirittura come un possibile incentivo. Inoltre, dal punto di vista dell’internazionalizzazione, va sottolineato che, nel corso degli anni, fenomeni tecnicamente non legali come, per esempio, quello delle comunità di fan impegnati nel sottotitolare film e serie tv ne hanno certamente favorito la circuitazione in contesti nei quali, magari, sarebbero rimasti inediti. In molti casi, hanno addirittura aperto nuovi mercati per quei prodotti, penso ai fan degli anime giapponesi negli Stati Uniti, tanto che poi l’industria ufficiale ha persino fatto proprio il lavoro di quelle comunità“.
Come si pone il “postspettatore” contemporaneo di fronte alle polemiche sulla presunta cancellazione o, comunque, sulla ricontestualizzazione adattata al presente di classici “controversi” come, per esempio, Via col vento da parte di alcune piattaforme di streaming video?
“Premetto che, ovviamente, qualsiasi azione di cancellazione di un’opera dell’ingegno umano da un listino è deprecabile. Però, su questo argomento specifico io credo che si debba anche fare i conti, nel concreto, con la drammatica assenza di una literacy a livello globale, in particolar modo quando parliamo di media audiovisivi. La diffusa alfabetizzazione in questo settore, purtroppo, è ancora un’utopia, pertanto può accadere con una certa frequenza che non si riesca a decodificare compiutamente e in profondità una determinata opera. Dunque, tornando al caso specifico di Via col vento, non ci vedo niente di male nella scelta della Warner di rimuovere temporaneamente un film che, alla luce della sensibilità contemporanea su determinati temi, può risultare offensivo, per poi ripubblicarlo preceduto da un’introduzione critica che lo contestualizzi e, magari, lo faccia anche apprezzare meglio. In un mondo ideale, lo spettatore contemporaneo non avrebbe bisogno di una guida di questo tipo, poiché disporrebbe degli strumenti per poter affrontare da solo quella visione in modo pienamente consapevole. Purtroppo, però, nella realtà non è così. E, allora, se questo è il rospo da ingoiare, ben venga. In questo caso, comunque, ci tengo a ribadire che non vi è stata alcuna censura, ma soltanto un’enorme caciara“.
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