Ci sono comportamenti irrazionali talmente radicati nella natura umana da ripetersi con sistematicità da sempre. Il Coronavirus, ad esempio, ha rievocato nei discorsi al presente gli untori di manzoniana memoria, da tempo sepolti tra le pagine dei libri di scuola. In scala più ridotta, ogniqualvolta si diffonde una nuova tecnologia non è raro si crei preoccupazione, che tende a sfociare nell’isteria di massa se non supportata da evidenze scientifiche. Un caso lampante in tal senso è quanto sta accadendo con l’introduzione della rete 5G in Italia: la paura per i presunti effetti nocivi delle nuove antenne sulla salute ha portato alla vandalizzazione di diversi impianti e, in alcuni casi, a ordinanze comunali che ne hanno sospeso l’installazione, come accaduto lo scorso 27 aprile a Casoria, nel Napoletano. Una storia non nuova, già vista con l’avvento delle precedenti generazioni di standard per le comunicazioni mobili. Dubitare è una sana abitudine, ma l’unico antidoto efficace per evitare rigurgiti di irrazionalità, in qualsiasi ambito, è partire da una conoscenza profonda nella materia in oggetto, rivolgendosi agli esperti del settore. Sergio Salerno è professore associato presso l’università di Palermo e presidente nazionale della sezione di radioprotezione e radiobiologia della Società italiana di radiologia medica.
Possiamo attualmente ritenerci esposti a dosi consistenti di onde elettromagnetiche?
“È indubbio che viviamo circondati da radiofrequenze, da campi magnetici, ognuno di noi è quotidianamente esposto a molti di essi. Io, in questo momento, sto usando un computer che è un campo magnetico, ho accanto un telefono e una stampante che sono campi magnetici, ho in tasca un cellulare che emette radiofrequenze”.
Che effetto ha tale esposizione sul corpo umano?
“Esiste oggi un inquinamento elettromagnetico superiore a quello sperimentato dai nostri antenati, ma nessuno ha documentato che questo crei un danno alla salute per la popolazione. Che possano fare male è un assunto che tutti più o meno possiamo pensare, ma in realtà la risposta non è così semplice. Il problema in medicina, come sempre, sono le dosi. Io che vivo in Sicilia sono esposto a 0.4 millisievert di radiazioni ionizzanti all’anno. Fanno male? No, altrimenti la vita in Sicilia non si sarebbe mai sviluppata. Il nostro organismo si è abituato, dispone di meccanismi di difesa adatti a sostenere questa radiazione. È ovvio che se io invece entrassi nel reattore di Černobyl’, dove la quantità di radiazioni è immensamente superiore, oltre i 100 sievert, subirei pesanti ripercussioni fisiche”.
Con l’introduzione della rete 5G, cosa cambierà in tal senso? Cosa sa la scienza attualmente?
“La dose di radiazioni emessa del 5G sarà sicuramente superiore alla tecnologia 4G esistente, ma non abbiamo dati che ci dimostrino che questa dose faccia male. Esistono organismi internazionali indipendenti che monitorano queste cose: secondo l’International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection, una organizzazione non governativa formalmente riconosciuta dall’Oms che studia i potenziali effetti nocivi delle radiazioni sul corpo umano, la dose di radiazioni emesse dal 5G è sotto il livello di esposizione considerato pericoloso per la salute umana. I dati dell’Icnirp sono aggiornati di continuo, l’ultima revisione è avvenuta nel marzo 2020, due mesi fa, parallelamente all’installazione della rete 5G in molti paesi e coerentemente con i dati che giungono da paesi come la Corea del Sud, dove tale tecnologia è già stata impiantata su tutto il territorio nazionale”.
La diffusa preoccupazione per gli effetti della nuova rete è quindi eccessiva?
“Sono almeno 25 anni che mi occupo di radioprotezione: con l’avvento di ogni nuova tecnologia, dai cellulari alla risonanza magnetica, c’è sempre all’inizio un po’ di paura, vengono citati lavori che mostrano evidenze di danni a livello cellulare e poi, a mano a mano che la tecnologia prende piede sul territorio, questo fenomeno si sgonfia progressivamente per poi esaurirsi. Anche quando vennero installati in Italia le antenne 4G si alzò un polverone simile”.
Strumenti come il cellulare sono spesso considerati dannosi per il nostro organismo.
“Anche in questo caso, nessuno ha ad oggi documentato che il campo magnetico e la radiofrequenza di un cellulare, anche se usato per ore, crei un danno all’organismo: si è riscontrato solo un aumento della temperatura all’orecchio e degli organi vicini. Una famosa sentenza italiana che riconduceva l’insorgenza di un tumore a un cellulare ha fatto un po’ ridere gli scienziati di mezza Europa, qualche anno fa”.
Come devono comportarsi medici e istituzioni nell’approccio a una nuova tecnologia?
“Due sono i concetti fondamentali in medicina. Il primo è stabilire dei limiti: questi limiti sono fissati da leggi comunitarie o nazionali, e la rete che verrà impiantata in Italia dovrà rispettarli. Il secondo è il controllo, che in Italia è demandato agli organismi provinciali, i quali dovranno controllare che tutte queste emissioni siano al di sotto dei limiti previsti. Parallelamente al controllo delle emissioni deve esserci anche una sorveglianza sanitaria sui territori: se ci accorgeremo che i dati sull’incidenza di alcune patologie variano, dovremo a quel punto verificare se questa cosa sia collegata al 5G”.
Insomma, si potrebbe dire sia necessaria una sorveglianza in itinere.
“Esattamente, su qualsiasi nuova tecnologia bisogna fare così. Dirò una cosa forse spiacevole: quello che è importante nel campo medico, per verificare la sussistenza di un danno concreto, è che questo ecceda il normale danno a cui un individuo può andare normalmente incontro nel corso della vita. Un concetto che in medicina si chiama eccesso di rischio: in breve, bisogna chiedersi e verificare se una tecnologia abbia portato un aumento di rischio per la salute. Se sì, tale tecnologia va assolutamente sottoposta a stretti vincoli normativi, altrimenti no. Per il 5G dobbiamo ancora documentare questi lati negativi: abbiamo documentato alcuni riscontri su qualche campione cellulare su un’esposizione di ore, ma il nostro organismo è un discorso diverso, ha molti sistemi riparativi e di protezione. Tutti gli studi solitamente citati in merito si riconducono a un evento, che è reale, riguardante dei grossi impianti radar installati in un paese del Nord Europa: sulla popolazione esposta a tali impianti il servizio di vigilanza sanitaria notò un incremento di alcune neoplasie, ma si parlava di un impianto fuori norma. Se oggi qualcuno operasse fuori norma dovrebbe essere sanzionato”.
Nel corso della storia, elementi come il radio o l’ossido di uranio sono stati utilizzati per fabbricare oggetti di uso quotidiano, fino a quando non se ne è scoperta la tossicità per l’uomo. Che una cosa del genere possa verificarsi col 5G è un rischio concreto?
“Oggi la situazione è diversa, i meccanismi di controllo odierni sono piuttosto severi. Ogni nuova tecnologia va verificata e di solito gli organismi internazionali danno un benestare molto prudenziale, soprattutto quando ci sono incertezze dovute alla mancata osservazione sul campo, come avviene la rete 5G e con qualsiasi altra nuova tecnologia”.
Quindi, mettendo i due pesi sulla bilancia, converrebbe non fermare l’installazione della rete?
“Sì. Basti pensare al miglioramento della connettività per la distribuzione delle informazioni mediche in aree remote. Ci sono parti del nostro Paese che non sono servite da una connessione internet: a fronte di un rischio su cui non esistono dati, pensi a quante vite salverà il poter mandare in tempo reale un elettrocardiogramma o qualunque altro esame medico in centri più specializzati. Io direi che fermare la tecnologia quando non c’è certezza di un danno equivalga forse a fermare il futuro. Sorvegliamo la tecnologia, perché un monitoraggio scrupoloso è fondamentale, ma non arrestiamola. Anche il Coronavirus ci ha insegnato quanto lo scambio di informazioni sia fondamentale: io stesso ho seguito un sacco di corsi di aggiornamento sul Covid-19 online, se non ci fosse stato questo strumento le conoscenze mediche non sarebbero arrivate in tutto il mondo così velocemente e non avremmo saputo interpretare i casi di molti pazienti. Vale ovviamente anche per le università: senza connettività io non avrei fatto lezione agli studenti, non avrei fatto esami, nulla”.
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