Ho conosciuto la penna e la parola di Chiara Gamberale con L’Isola dell’abbandono, un testo in cui emerge chiaramente la forza di chi spesso non ha la vitalità di stare nel mondo. Da lì ho cominciato a seguirla e, dopo il lockdown, in libreria trovo una copertina con una finestra a forma di oblò che si apre al mondo e un corpo di spalle, il suo, al di qua di quell’oblò rivolto verso il mondo di fuori. Una copertina che non può che essere un invito alla lettura per tutti coloro che spesso si trovano al di qua del mondo esterno, che lo guardano, lo interrogano, si interrogano, che spesso sprofondano dentro la loro testa e nel loro mondo interiore, come il mare in un bicchiere.
Come il mare in un bicchiere non è un libro sulla quarantena, non è un libro sul virus, non è un libro sull’epidemia, non è un libro distopico, ma è un quaderno aperto, come lo definisce la stessa autrice, in cui si dipanano i fili sparsi eppure uniti di una donna – un io che sceglie di non diventare personaggio di un romanzo per parlare – la quale conosce il “dentro di testa” e che con la quarantena, con l’obbligo di stare ‘dentro’, avrebbe potuto collassare nel suo di ‘dentro’. “Sono le diciotto, ed eccomi davanti al portone del dottor R., ancora una volta. Era da sette anni che non mi capitava, è da quando ne ho dodici che può capitarmi. Di perdere il filo del senso e i contorni che separano me dal resto del mondo” (pagina 11). “Non ho mai sopportato che delle persone con un certo tipo di problemi si dica, fuori di testa. Semmai è il contrario. Stare male significa essere prigionieri della propria testa, barricati in un bunker […] persone semmai dentro di testa, quindi, quelle che smarginano” (pagine 12-13).
Chiara Gamberale in Come il mare in un bicchiere apre il suo quaderno con una descrizione potentemente evocativa della sensazione di chi sperimenta il disagio psichico. Ebbene Chiara e il suo ‘dentro di testa’, si ritrovano (come del resto ognuno di noi) costretti dentro quattro mura, senza la possibilità di usare il solito rimedio che in genere chiunque conosca il mal di vivere tende a usare: otturare il proprio dentro uscendo fuori, riempiendo la propria vita di cose da fare per non soffocare, per non pensare. Chiunque conosca il ‘dentro di testa’ e i suoi arrovellamenti, sa bene quanto l’annuncio della chiusura abbia impaurito. E se il muro favorirà lo sprofondamento nel mio ‘dentro di testa’? Domanda e paura legittima.
E invece… Invece dentro le quattro mura della propria casa a Chiara Gamberale accade che non ha più bisogno di farmaci per stabilizzare il suo umore, accade che entra nella sua casa un altro tipo di fuori, diverso da quell’otturatore che serve solo a coprire e a nascondere. Nel dentro della sua casa comincia ad entrare, seppur in maniera inedita (ossia al telefono), un fuori autentico, ricco, sorprendentemente semplice: il gruppo di amici degli animali dell’Arca senza Noè, i ragazzi e le ragazze di VolontAriaMente e poi ci sono il Padre di Vita (PdV), che prima del lockdown le raggiungeva a Roma solo nel fine settimana e che invece ha condiviso con lei la quarantena, consentendo a entrambi si scoprire un nuovo tipo di rapporto, Gollum, l’ex marito ormai diventato un fratello e, soprattutto, c’è Vita, la figlia di due anni, la certezza costante dei giorni di Chiara del prima e del dopo: di sempre.
Come è stato possibile ciò? Ciò che è accaduto a Chiara in verità è accaduto a moltissime persone, soprattutto a quelle che là fuori sentono il peso della diversità, il peso del loro dentro, il peso di una società narcisistica e volta solo alla prestazione e all’apparire. A quelle persone lo stare dentro ha rimodulato gli equilibri, ha concesso di allungare lo sguardo verso altre forme di stare al mondo. A quelle persone, a Chiara, i muri della casa sono diventati orizzonti. “Prima di chiudere questo quaderno, telefono al dottor R. Gli racconto che ho smesso quasi subito di prendere quei farmaci, gli spiego come mi sento. È solo una mia suggestione, dottore? – gli chiedo -. O anche su altri suoi pazienti questa quarantena ha avuto lo stesso effetto che ha avuto su di me? – Dipende, Chiara, – mi risponde lui […] -. I miei pazienti che hanno dei parenti in rianimazione non sono mai stati peggio. C’è poi chi era appena uscito da una clinica ed è stato subito ricoverato di nuovo. Chi in clinica si è ammalato: provi a immaginare. E c’è chi invece, come lei ha trovato dei sorprendenti motivi di forza in questa situazione. Sono talmente tante le persone. E il loro mistero è la base della mia scienza” (pagine 112-113).