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Home Cultura

Commenti / Contro la burocratizzazione del pensiero e dell’umano

Ida Rotunno di Ida Rotunno
17 Maggio 2020
in Cultura
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pensiero

pensiero

Lo stato di emergenza al quale abbiamo assistito e continuiamo ad assistere in questi giorni è vicenda estremamente complessa; si configura come il prodotto di cause disparate e di non semplice individuazione, che vedono coinvolti – anche considerandone gli effetti – piani, settori, questioni di diversa natura: virologico-medico-epidemiologici, socio-economici, finanziari, psicologici. Pensiamo, a titolo di esempio, a quanto l’impatto potenzialmente devastante dell’emergenza sanitaria possa in qualche misura considerarsi conseguenza di una progressiva erosione dei diritti sociali, del welfare state e degli investimenti nella sanità pubblica, a loro volta conseguenza in primo luogo di politiche economiche europee di matrice neoliberale improntate a una teoria (parziale e, in quanto tale, discutibile) che è il monetarismo, in secondo luogo del processo di globalizzazione economica cui siamo inesorabilmente tutti sottoposti. La stessa globalizzazione, intesa come riduzione progressiva delle distanze, agisce anche su un altro fronte: quello della velocità di propagazione del virus. E ancora: a rendere eccezionale ed emergenziale la situazione è anche la scarsa o nulla conoscenza che scienziati, medici, addetti ai lavori hanno della malattia, con la conseguente assenza pressoché totale di protocolli e procedure scientificamente fondati.

Può una vicenda così complessa, dunque, essere affidata alle soluzioni escogitate da esperti – quali possono essere i virologi o gli epidemiologi – sicuramente molto competenti di un solo settore, capacissimi di cogliere tutti gli aspetti e le implicazioni delle questioni riguardanti il proprio ramo di competenza, ma incapaci di una visione d’insieme? Non si corre il rischio di tralasciare aspetti affatto marginali, rendendo concreta l’ipotesi di lasciare aperti e irrisolti problemi di notevole portata, non avendo aggredito la questione alla sua radice? Di fronte a questioni dalla genesi multifattoriale e complessa, qualsiasi analisi richiede approcci complessi e interdisciplinari, le cui soluzioni restano talvolta aperte e parziali, rese ancor più difficili dall’iper-settorializzazione del sapere, caratteristica della nostra contemporaneità. Che oggi si adotti un approccio settoriale può senza dubbio essere la conseguenza di un prevalere di interessi di varia natura, ma sono ipotizzabili, tuttavia, anche altre motivazioni.

La conoscenza scientifica ha innegabilmente compiuto passi da gigante a ritmi vertiginosi e senza precedenti. Ciò ha comportato un’estrema specializzazione e una conseguente parcellizzazione del sapere, per cui a ogni esperto competente iper-specializzato nel proprio settore di riferimento rischia di sfuggire la visione d’insieme. Ne consegue un pesante rischio: se ci si affida – come spesso accade nella società iper-specializzata della competenza – ai “tecnici”, agli “esperti”, si rischia di rimanere intrappolati in prospettive e soluzioni parziali e univoche, elaborate e filtrate dalle griglie anguste di un unico settore della conoscenza. È esattamente questa ciò che potremmo definire la gabbia delle competenze, alla quale ci sta condannando una didattica miope e ottundente di matrice neoliberale, unicamente asservita ai dettami del mercato e alle esigenze delle imprese e che sta monopolizzando l’approccio metodologico nella scuola italiana e non solo.

La didattica delle competenze è allo stesso tempo figlia e madre di una burocratizzazione del pensiero, dalla quale consegue una protocollizzazione delle procedure: lungi dal dispiegarsi come autonoma costruzione, continua e interminabile ricerca e rivisitazione di categorie e griglie di lettura del reale (che richiederebbe, peraltro, una visione globale e una lucida onestà intellettuale), il processo di pensiero finisce invece per perdere tutto il suo potenziale critico, diventando meccanica e settoriale applicazione di regole e configurandosi come uno strumento di conservazione dello status quo, utile e funzionale al sistema, tradendo la sua originaria e socratica vocazione. Il pensiero è ridotto a calcolo: il pensiero critico cede il passo al pensiero computazionale.

Quest’ultimo entra in gioco quando il problema è già posto, in un sistema già dato e in una prospettiva estremamente ristretta, che non contempla la possibilità di analizzare le premesse, i presupposti teorici dai quali si prendono le mosse, né tantomeno si pone per il soggetto la possibilità di considerare le conseguenze delle proprie azioni; anzi, spesso il pensiero computazionale entra in azione in segmenti di un processo, del quale sfugge la visione integrale. È la capacità di calcolare dell’uomo contemporaneo, uomo della tecnica, novello “Prometeo scatenato”, sempre più impegnato in un processo parcellizzato e segmentato; funzionale, dunque, solo alla produzione, ma miope e claustrofobico se si considera l’umanità in tutte le sue declinazioni. Occorre prestare attenzione – suggerisce la filosofa Hannah Arendt in Vita Activa – a non commettere un errore fatale: “Se la conoscenza (nel senso moderno di know-how, di competenza tecnica) si separasse irreparabilmente dal pensiero, allora diventeremmo esseri senza speranza, schiavi non tanto delle nostre macchine quanto della nostra competenza, creature prive di pensiero alla mercé di ogni dispositivo tecnicamente possibile, per quanto micidiale”. Le sue parole suonano, oggi, come un monito inascoltato.

Resta ancora attuale, o forse da recuperare, la lezione della Scuola di Francoforte; Theodor Wiesengrund Adorno e Max Horkheimer coniarono la locuzione “industria culturale”, con la quale intesero descrivere una cultura che andava e va sempre più configurandosi come prodotto, un qualcosa di preconfezionato e destinato al consumo, incardinato nel sistema propagandistico-comunicativo e ben armonizzato col suo spirito utilitaristico. Apparentemente democratica e alla portata di tutti, tale concezione della cultura finisce per relegare il cittadino a un ruolo passivo, di sudditanza nei confronti di chi è, invece, preposto alla elaborazione di tale prodotto. Ed è lo stesso Horkheimer a ricordarci l’importanza della scuola per promuovere una cittadinanza che sia realmente attiva e consapevole e per scongiurare derive totalitarie: “Ci rendevamo conto – dice il filosofo durante un’intervista rilasciata alla Radiotelevisione svizzera di lingua italiana, il 19 dicembre 1968 – che la democrazia era minacciata […] e perciò abbiamo cercato di rappresentare, sul piano psicologico e sociologico, come esistesse già il carattere umano disposto a seguire un capo di qualsiasi genere, un demagogo. Ritengo quindi che oggi sia importantissimo insegnare nelle scuole cosa è realmente la demagogia. Ma lo si fa ben poco, infatti quest’insegnamento è trascurato […], forse vale la pena di insistere un po’ su questo tema […]. È molto importante infatti che già a scuola i giovani imparino a distinguere tra un discorso corretto e serio e un discorso demagogico”.

Sarebbe forse il caso di mettere mano a una radicale riforma dell’istruzione, in un’ottica che restituisca finalmente centralità all’umanità, al cittadino, alla persona. È forse questo, oggi, il gesto più rivoluzionario: favorire la costruzione della persona, l’elaborazione di una personalità, solida, strutturata, capace di abitare la solitudine in quel dialogo silenzioso tra sé e se stessi di socratica memoria, condizione indispensabile per decidere “chi” essere, contro la banalità del male. Diceva Michel Foucault, durante uno degli ultimi corsi al Collège de France: “[…] Penso vi sia forse da sospettare qualcosa come una sorta di impossibilità, e precisamente l’impossibilità di costituire, oggi, un’etica del sé. Eppure, proprio la costituzione di una tale etica è un compito urgente, fondamentale, politicamente indispensabile, se è vero che, dopotutto, non esiste un altro punto, originario e finale di resistenza al potere politico, che non stia nel rapporto di sé con sé”.

(L’autrice è docente di Filosofia e Storia presso il Liceo classico Domenico Cirillo di Aversa)

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Tags: burocratizzazioneconoscenzacoscienza criticafilosofiaHannah ArendtMax HorkheimerMichel Foucaultpensiero
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