di Adolfo Fattori*
Raramente, nella storia dell’uomo, si è verificato il caso in cui l’intero pianeta fosse investito da un unico fenomeno e, contemporaneamente, questo diventasse pressoché l’unico argomento di discussione, conversazione, riflessione, litigio anche. Oggi, ci troviamo a partecipare e contemporaneamente ad assistere proprio a un evento del genere: ne siamo partecipanti e osservatori, proprio secondo uno degli approcci più fruttuosi della ricerca sociale. Ma, naturalmente, non essendo tutti sociologi, non ne siamo consapevoli. Immersi nell’evolversi e nella “narrazione” dell’epidemia di Covid-19, infatti, siamo dentro un flusso di eventi e discorsi da cui speriamo di uscire al più presto, lasciandoci alle spalle un’esperienza che percepiamo come terribile, traumatica, spaventosa, nella sua unicità.
Non è della sociologia prevedere il futuro e neanche, pur sembrando paradossale, della fantascienza, uno dei cui assiomi è proprio – ricordate Ritorno al futuro? – che il futuro è imprevedibile. Ma è della sociologia e della fantascienza riflettere sul presente per immaginare i risultati, ampiamente imprevedibili, del presente sul futuro, ma sempre partendo dal qui-ed-ora. E allora, lasciando da parte la science fiction, che pure ci ha offerto visioni straordinarie di come diventerebbe il mondo se squassato da una qualsiasi catastrofe planetaria, proverò a ragionare da sociologo, considerando che ci troviamo in una situazione, appunto, unica: la possibilità di osservare il presente, e la nostra relazione con questo, nella piena consapevolezza di assistere a un fenomeno che sta cambiando radicalmente la nostra relazione col mondo sociale e, per certi versi, anche con quello della natura.
Un dato è ineludibile e fa da sfondo a qualsiasi ragionamento: siamo di fronte a una situazione unica. Siamo sotto lo scacco di una minaccia non solo imprevedibile e inedita, ma invisibile, addirittura impercepibile: non la vediamo, annusiamo, gustiamo, tocchiamo; non la percepiamo, se non nei suoi effetti fisici (se ci ha colpito, se ha colpito qualcuno vicino a noi). Per converso, sappiamo tutto di come si diffonde, avanza, recede nel mondo, ma solo attraverso i media: i dati della sua virulenza, le politiche messe in atto, le informazioni sull’azione del mondo scientifico. Una conoscenza che si nutre della preponderanza del sentito dire, piuttosto che dell’esperienza diretta, ma che non possiamo o vogliamo ignorare. E poi possiamo osservare e descrivere i comportamenti delle persone intorno a noi. Pochissimi, giusto quelli dei nostri familiari, coinquilini e delle poche persone che finora abbiamo incrociato per strada e nei supermercati. Ma, moltissimi, se pensiamo al web, ai social, a tutti i canali di comunicazione diretta che abbiamo a disposizione; chat e messaggerie in tutto il loro spettro. E, in più, i numerosi questionari che abbiamo ricevuto via internet da enti di ricerca e istituti universitari, di cui non conosciamo gli esiti, certo, ma dai quali potremmo trarre ulteriori indicazioni anche solo analizzandone le domande. Insomma, una situazione atipica, ma a modo suo esemplare: seppure l’osservazione diretta sia minima, l’osservazione in virtuale – che è specchio fedele di atteggiamenti, stati d’animo, sentimenti – è invece ricca e variegata, come è abbondante la massa di dati che ci arriva dalla martellante comunicazione istituzionale (scientifica e politica).
Siamo tutti concentrati sull’epidemia, non c’è spazio per altro, e i nostri comportamenti lo dimostrano, sia quando ci troviamo a contatto diretto con gli altri, sia quando siamo on-line, al netto di un numero trascurabile di “ribelli” – subito marchiati come irresponsabili – e della contraddittorietà delle informazioni che riceviamo. Vengono in mente le memorie di guerra dei nostri nonni, che ci parlavano di Radio Londra. E, da questo punto di vista, è come se fossimo in guerra, solo che… solo che la guerra la provocano gli uomini, volontariamente e consapevolmente, mentre un’epidemia come questa no: è arrivata come una tempesta, a falciare vite e a spazzare via – almeno questa è l’impressione – l’esistenza quotidiana come la conoscevamo. Ci riporta indietro, all’alba dell’umanità, quando il mondo era percepito come dominato dal soprannaturale: un mondo ostile, pericoloso, traditore; governato da forze invisibili, incomprensibili e ingovernabili, come il virus del Covid-19.
Navighiamo a vista, moltiplicando la prudenza e le precauzioni, attenti alle prescrizioni delle autorità scientifiche e governative, come guardandoci alle spalle da un nemico subdolo e perfido, che non fa distinzioni fra gli umani. Non come, a guardare al recente passato, molti di noi si sono comportati – cinicamente e egoisticamente – con l’Ebola o l’Hiv: nell’immaginario comune, il primo riguardava i neri africani, “vite di scarto”, come scriveva il sociologo Zygmunt Bauman; il secondo tossici e omosessuali, categorie “a rischio”, per la morale comune comunque un rischio volontario, peccaminoso, coperto di interdetto e puntualmente richiamato da qualche bella testa anche oggi, per questa epidemia.
Con il Covid-19 governa il caso, paradossalmente l’unica entità neutrale, astratta, aliena, dando un senso tutto particolare alle parole che Two Faces, l’avversario di Batman in Il cavaliere oscuro, getta in faccia all’eroe: “Pensavi che potessimo essere persone per bene in questi tempi in cui tutto è male, ma ti sbagliavi, il mondo è spietato e l’unica moralità in un mondo spietato è il caso… imparziale, senza pregiudizi… equo“. Perdiamo gli ancoraggi che finora hanno dato senso alla realtà: la nostra vita quotidiana, con le sue routines, le sue regole, le sue abitudini, destabilizzandoci completamente: “Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c’è un dopo. Il dopo è già qui“, come scrive Cormac McCarthy in quel capolavoro che è La strada. I nostri atteggiamenti scivolano verso il passato, quello più antico e oscuro, rigettandoci, destabilizzati, verso il soprannaturale, il pensiero magico, nel disorientamento più totale derivante dal crollo delle nostre certezze su noi stessi, il nostro “progetto di vita”, il futuro che immaginavamo. Non riusciamo a dare senso a ciò che ci sta avvenendo intorno. In una realtà in cui eravamo abituati a pensare in termini di “realizzazione del Sé”, di “libero arbitrio”, vediamo inserirsi una variabile impazzita, che spazza via le nostre certezze, mettendoci di fronte alla rivelazione – sempre ricacciata indietro – della nostra inconsistenza: “Siamo nullità dotate di coscienza“, come dice il protagonista della prima stagione di True Detective al suo partner.
La condizione nella quale ci veniamo a trovare quando ci capita qualche “evento fatale”, per dirla con il sociologo Anthony Giddens, negativo come un lutto, un incidente, un’avversità, è potenzialmente estesa con l’epidemia di Covid-19 a tutta l’umanità. Ci troviamo di fronte allo spettro della Morte, alla fine del senso, a cui non sappiamo dare risposta, anche se ci proviamo da secoli attraverso il lavoro artistico, la ricerca scientifica e la quotidiana fatica di Sisifo, come Albert Camus sosteneva, ragionando sulla condizione di assurdità in cui è immersa la nostra vita. Questa consapevolezza potrebbe, forse, come sperano i più ottimisti, condurci, finita la tempesta, a immaginare e progettare una condizione umana migliore: maggiore giustizia sociale, maggiore equilibrio, maggiore empatia. O, al contrario, come pensano i più pessimisti (o i più realisti?) un rafforzamento delle disparità sociali, un aumento della concentrazione del potere. Per sapere come andrà dovremo aspettare. Volendo, l’unico paragone veramente calzante sarebbe con l’epidemia di spagnola che squassò il mondo subito dopo la Prima guerra mondiale, con cifre assolutamente non paragonabili a quelle di oggi; su una popolazione totale di due miliardi e mezzo di persone, in due anni circa ci furono fra i 50 e i 100 milioni di vittime (non se ne conosce neanche il numero esatto e con un margine di errore del cento per cento). Dopo le cose non andarono meglio, anzi…
Colgo un altro elemento, nella crisi che stiamo attraversando, ma, avverto, è molto legato alla mia esperienza diretta e, quindi, da prendere con le dovute molle. Prima dell’avvento del digitale e del web, ci si riuniva – come fino a ieri – nelle piazze, nei bar, in casa. Se si era lontani, ci si scriveva. Potendo ci si telefonava, per ristabilire in mancanza di meglio un contatto diretto, interattivo, immediato. L’epidemia ci ha chiusi in casa, escludendoci dalle relazioni face-to-face. Surroghiamo con i social, dove ci lamentiamo di non poterci vedere, di non poter frequentare parchi, strade, ritrovi, case di parenti e amici. Affrontiamo lezioni e incontri on-line sulle varie piattaforme ormai disponibili, ma ci costano fatica e stress; e ce ne lamentiamo. Ma non ci telefoniamo: lasciamo audiomessaggi, scriviamo post, scriviamo sms o tweet. Al di là del paradosso e del moralismo, questo – se è vero – indica un fenomeno non nuovo, ma già radicato e operante, che solo questa crisi poteva mostrare in tutta la sua forza. E che riguarda l’estremizzarsi del processo di individualizzazione, cifra profonda della tarda modernità: lo spostamento e il riallineamento delle frontiere dell’intimità.
Il telefono costringe alla presenza contemporanea, all’attenzione, all’ascolto, a una relazione intima e condivisa nella scansione del tempo, dei pieni e dei vuoti, delle pause e dei riempimenti. Cosa che il web permette di evitare: lasci un messaggio, poi avrai risposta. L’organizzazione del tempo sociale cambia completamente. Allora, forse, il “bisogno di socialità” che sembra esplodere, montare, è da ridefinire, nei termini di una socialità “recintata”, “contingentata”, che non sfiori né tantomeno invada, la sfera della propria individualità, di un Sé sempre più privato, chiuso, blindato. Solo.
*Sociologo e docente di Fenomenologia dei media
all’Accademia di Belle arti di Napoli
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