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Home Società

Editoriale / L’epidemia a due velocità, la gestione politica e il racconto dei media

Diego Del Pozzo di Diego Del Pozzo
10 Maggio 2020
in Società
positivi

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Mentre l’Italia continua, con passo incerto e tra mille paure e dubbi, a percorrere l’accidentato cammino lungo la Fase 2, è giunto il momento di iniziare a interrogarsi (con ragionamenti inevitabilmente parziali e che, al momento, devono essere considerati come in itinere) su ciò che davvero è accaduto in questi mesi di epidemia in una nazione che, da sempre, fa quotidianamente i conti con la propria identità imperfetta e che continua a proporsi come entità proteiforme come poche altre e, al tempo stesso, a proporre differenze abissali tra le sue aree (i famosi “mille campanili”), dal punto di vista sociale, economico ma anche nel racconto dei media.

Tutto ciò, infatti, è a mio avviso applicabile anche al modo nel quale l’epidemia da Covid-19 è stata gestita e, soprattutto, raccontata in questi mesi, a livello istituzionale, mediatico e di conseguente formazione di un immaginario più o meno condiviso e diffuso su un tema che è apparso da subito come epocale e periodizzante. Ancora ieri pomeriggio, per capirci, il bollettino quotidiano della Protezione civile con i dati sul Coronavirus in Italia comunicava 1.083 nuovi casi di contagio e un totale di positivi pari a 84.842. Il dato davvero interessante, però, è un altro e riguarda la divisione di questi positivi totali tra le varie regioni: 30.262 in Lombardia, 13.934 in Piemonte, 7.401 in Emilia-Romagna, 5.877 in Veneto, 4.448 in Toscana, 2.982 in Liguria, 4.345 nel Lazio, 3.230 nelle Marche, 1.965 in Campania, 830 nella Provincia autonoma di Trento, 2.729 in Puglia, 2.080 in Sicilia, 869 in Friuli Venezia Giulia, 1.676 in Abruzzo, 473 nella Provincia autonoma di Bolzano, 111 in Umbria, 550 in Sardegna, 118 in Valle d’Aosta, 612 in Calabria, 145 in Basilicata e 205 in Molise.

Quindi, in base a questi dati ufficiali, più di un terzo del totale riguarda la sola Lombardia e oltre due terzi sole quattro regioni: la stessa Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto. Il dato di ieri, d’altra parte, conferma un trend stabile fin dagli inizi dell’emergenza (ufficialmente a fine febbraio) e rimanda in modo diretto ai numeri presenti all’interno del rapporto Istat e Iss diffuso nei giorni scorsi, dal quale emerge con estrema chiarezza un’Italia spaccata in tre zone, per ciò che concerne la diffusione del virus e i relativi tassi di mortalità: Nord, Centro e Sud. Va anche sottolineato che, nei momenti più drammatici dell’emergenza, la sola Lombardia ha inciso sul numero complessivo dei contagiati e dei morti italiani per una percentuale di molto superiore alla metà del totale. D’altronde, anche il rapporto Istat-Iss parla esplicitamente di “forte concentrazione del fenomeno“.

Di fronte a un’epidemia che in Italia s’è diffusa fin dall’inizio in un modo così frastagliato e diseguale (sempre nel rapporto Istat-Iss si legge: “La diffusione geografica dell’epidemia di Covid-19 è eterogenea. Nelle Regioni del Sud e nelle isole la diffusione delle infezioni è stata molto contenuta, in quelle del Centro è stata mediamente più elevata rispetto al Mezzogiorno, mentre in quelle del Nord la circolazione del virus è stata molto elevata“) la scelta del Governo italiano – inerme di fronte ai disastri gestionali combinati dalle istituzioni territoriali in Lombardia nella prima fase del contagio – è stata di chiudere completamente un’intera nazione per due mesi, in pratica trattando una piccola cittadina balneare della Basilicata come Metaponto sul mar Ionio come la devastata Bergamo, nella quale a un certo punto la quotidianità era diventata quasi come un episodio di The Walking Dead o di un’altra serie post-apocalittica a vostra scelta.

Questa decisione, certamente legittima e ponderata, ha alla base evidenti motivazioni, soprattutto di carattere economico e politico, poiché la Lombardia è tradizionalmente il principale “cuore” produttivo del Paese e, al tempo stesso, è l’enclave di riferimento di quello che, numeri e sondaggi alla mano, è il primo partito politico italiano, cioè la Lega salviniana. Tutto ciò, così come le pressioni di Confindustria e in generale del mondo dell’economia e della finanza, ha probabilmente suggerito al Governo di non “calcare la mano” su quell’unica regione, magari isolandola in modo drastico fin dall’inizio dell’epidemia, in modo da poter poi proporre più efficacemente misure di contenimento differenziate per il resto del territorio nazionale e far continuare a funzionare – soprattutto al Sud e in piena sicurezza – alcune attività produttive; nonostante fosse chiaro a tutti come in Lombardia qualcosa fosse andato storto fin dall’inizio, probabilmente anche a causa di un sistema sanitario del tutto diverso da quello delle altre regioni italiane, con un’incidenza dei privati decisiva in termini di scelte politiche e di gestione quotidiana. Sintetizzando e banalizzando: se gli ospedali sono a gestione privata conviene l’ospedalizzazione dei malati, perché da questa il privato guadagna, anche se a un certo punto gli ospedali stessi diventano focolai di contagio. In ogni caso, sulla gestione dell’emergenza sanitaria da parte della Regione Lombardia a guida leghista sono in corso indagini giudiziarie e in queste settimane anche numerose testate giornalistiche nazionali hanno iniziato a realizzare alcune inchieste accurate che, se lette con attenzione, fanno accapponare la pelle.

Il dato di fatto, però, resta: a livello di gestione complessiva da parte del Governo, così come a livello di racconto da parte dei media, l’epidemia da Covid-19 in Italia è sempre stata comunicata come un problema nazionale piuttosto che prevalentemente lombardo, anche a discapito di dati numerici che, fin dall’inizio, hanno sempre detto altro. S’è preferito, in molti casi, fare ironia sui modi teatrali di presidenti di Regione come Vincenzo De Luca in Campania, il quale ha fin dall’inizio adottato la linea del decisionismo spinto e messo in campo misure di prevenzione più restrittive di quelle nazionali, partendo da una semplice osservazione delle criticità presenti sul territorio campano: elevatissima densità abitativa (soprattutto in alcune aree decisive), età media più giovane d’Italia (con tutto ciò che ne consegue, anche in termini di presenza di soggetti asintomatici potenzialmente contagiosi), sistema sanitario regionale devastato da anni di commissariamento e da decenni di cattiva gestione, assoluta necessità di evitare un aumento di casi che l’appena citato sistema sanitario non sarebbe stato in grado di gestire. E mentre la Campania evitava l’esplosione dei contagi sul proprio territorio (anche ieri i nuovi casi sono stati soltanto dodici), per l’intero mese di marzo e anche ad aprile i numeri della Lombardia hanno continuato a essere stabili e preoccupanti, facendo sembrare ancora più paradossali e irresponsabili le fughe in avanti di tanti esponenti politici locali lombardi – e del governatore Fontana – per anticipare riaperture che, nei fatti, sono già avvenute prima che altrove, nonostante i numeri (per intenderci: a Milano i mercatini rionali sono già aperti e affollati da diversi giorni, mentre a Napoli riapriranno da domani in via sperimentale).

Questo, naturalmente, non è il momento delle divisioni o dei campanilismi. Anche perché proprio in questi mesi sta crescendo ulteriormente il rischio concreto che una nazione come l’Italia, già fin troppo divisa tra i suoi mille campanili, esca ancora più sfrangiata da un momento di crisi epocale. L’epidemia in corso, anzi, richiede una reale e concreta solidarietà tra tutte le componenti del corpo sociale nazionale, che deve proporsi anche a livello internazionale in modo solido e coeso. A proposito della modalità di gestione dell’emergenza e del conseguente racconto mediatico di tale emergenza, però, a mio avviso si sarebbe forse potuto prestare più attenzione a un aspetto della questione, anche in prospettiva: quando tutto tornerà alla normalità, a pagare in modo più salato il prezzo del blocco totale delle attività produttive grandi, medie e piccole saranno le regioni meridionali, soprattutto quelle più povere, piuttosto che quelle dotate, per tutta una serie di motivi anche storici e politici, di un tessuto economico ben più strutturato. Sempre per capirci, senza troppi giri di parole: a parità di misure di sostegno da parte del Governo centrale (senza tener conto, dunque, degli interventi delle Regioni) a superare meglio la crisi sarà la Lombardia molto più della Campania. Ed è evidente – chissà – che una percezione dell’epidemia come “problema lombardo” avrebbe potuto rendere questo processo un po’ più problematico e meno automatico (per esempio, nel rapporto con gli investitori esteri). Dunque, mi chiedo senza riuscire a darmi una risposta, non sarebbe stato meglio adattare le misure governative di contenimento dell’epidemia alla situazione reale dei singoli territori, invece di bloccare per due mesi indiscriminatamente un’intera nazione? E penso soprattutto a regioni come Basilicata o Calabria, ma anche all’Umbria, dove i numeri sono sempre stati molto bassi.

Però, da settimane, senza alcun retropensiero vittimistico o possibili tentazioni neo-borboniche (lungi da me), c’è un’altra domanda che mi risuona nella mente: se l’epidemia fosse esplosa e fosse sfuggita a qualsiasi controllo in Campania, invece che in Lombardia, che cosa sarebbe accaduto a livello di gestione da parte della politica nazionale e di racconto dei media?

 

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Tags: campaniaLombardia
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