Il potere dei bei libri, anche se scritti in tempi in cui neanche si potevano ipotizzare gli scenari del presente, è quello di riuscire a essere in qualche modo visionari e a prefigurare rischi e i pericoli dell’oggi. Alcuni anni fa il professore Massimo Recalcati ha scritto un saggio dal titolo L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, 2014. È il suo libro di riferimento sulla scuola, la base su cui ha fondato anche le sue riflessioni successive.
In questo testo Recalcati dapprima enuclea i tratti fondanti del modo di fare scuola, passato e presente, poi mostra in maniera icastica e chiara come a suo parere, e molto semplicemente, dovrebbe essere una scuola e una didattica che possa lasciare il segno. Dalle scuole elementari all’università, mette in luce il professore, tutti gli insegnanti che portiamo con noi nella memoria, quelli che hanno lasciato un segno, hanno un tratto fondamentale che li accumuna e che prescinde dai contenuti del loro insegnamento: noi li riconosciamo per il loro stile attraverso il quale passa l’amore che si ha per ciò che insegna.
Ma perché si verifichi ciò è necessario un corpo, il corpo dell’insegnante. Il cuore vero della didattica, di ogni didattica, è quindi l’incontro tra questi corpi. Già qualche anno fa il professore metteva però in guardia sui rischi del presente, in cui l’incontro rischia di estinguersi e di saltare, a causa di una digitalizzazione totalizzante della trasmissione del sapere. Ebbene, ieri ho svolto per la prima volta nella mia vita – e spero per l’ultima – gli esami a distanza e ho pensato tanto a quel libro e a quelle parole.
È stata un’esperienza alienante. Ci sarebbero tantissimi motivi tutti ugualmente validi per dimostrare ai fanatici delle opportunità delle tecnologie e dello smart working che la scuola a distanza non è scuola, ma solo un suo surrogato anonimo, impersonale, vuoto e sterile, ma io voglio soffermarmi su un unico aspetto: quello dei corpi e degli sguardi. Insegno alle medie da circa dieci anni ed è da circa dieci anni che svolgo esami.
Tralascio tutta la prima parte, quella degli scritti che quest’anno non c’è stata, e mi voglio dedicare esclusivamente al momento della discussione orale. Ho sempre avuto un grande rispetto per quel giorno perché per gli studenti è come se fosse la gara finale delle Olimpiadi, in quei quindici, venti minuti per loro tutto si gioca e tutto si decide. Il rispetto per quella sensazione che accomuna da sempre tutti gli studenti ha sempre fatto sì che io mi dedicassi con un’estrema cura a quella giornata. Le giornate degli orali le ricordo tutte nitidamente, perché tutte sono state accomunate da alcuni rituali.
Mi sono sempre svegliata prestissimo, ho sempre indossato i miei abiti ‘scolastici’ migliori, mi sono sempre truccata e sistemata i capelli per bene e sono sempre scesa molto presto da casa. In macchina ho sempre tenuto rigorosamente i finestrini aperti per assaporare ogni odore di inizio estate e l’immancabile caffè con coloro che per me sono gli amici di scuola e non colleghi prima di iniziare i colloqui. Le ricordo tutte le aule in cui ho svolto gli esami e ricordo tutti i posti in cui mi sono seduta, mai lontano o di lato, ma sempre di fronte ai miei ragazzi, affinché ottimali fossero gli guardi.
Ho sempre provato ad onorare la parola dei miei alunni con l’ascolto, li ho sempre guardati negli occhi, con rispetto, e ho sempre offerto loro un sorriso, o anche un rimprovero, se fosse stato necessario. Ciò che ho sempre provato a fare è stato offrire presenza. Presenza con il mio ascolto silenzioso, presenza con il mio sorriso, presenza con delle battute per sdrammatizzare o con una mano sulla spalla allo studente più insicuro e impaurito.
E ieri tutto questo è saltato. Solo un po’ di trucco sugli occhi e una spazzolata ai capelli, perché tanto nei quadratini non si vede, una maglietta qualsiasi perché tanto nei quadratini si vede solo la faccia e giusto un poco di spalle e, poi, nessuna mano da stringere, nessun abbraccio con nessun alunno, nessuna battuta con i colleghi, nessuno sguardo complice. Nei quadratini non puoi incrociare lo sguardo con nessuno, nei quadratini se fai l’occhiolino non si vede, nei quadratini l’immagine di te o dei colleghi o degli alunni a un certo punto capita che si blocca e che si diventa per gli altri un fermo immagine, magari in una posa terribile con gli occhi chiusi e la bocca contratta.
Poi ci sono le voci che improvvisamente diventano metalliche, il sistema che all’improvviso si blocca, il collega che per un attimo non è riuscito a parlare, quell’altro che per un attimo non è riuscito a sentire. Questa è la scuola a distanza e questi sono gli esami a distanza. Sono uno scenario distopico da Black Mirror, altro che opportunità. Senza voler sminuire la ‘necessità’ della scuola a distanza nella fase acuta della crisi pandemica, penso anche che lassù i legislatori e la politica abbiano scelto di non tenere affatto in considerazione la scuola come opportunità di crescita e che ci sia una volontà di rendere “sistema” un qualcosa che doveva essere usato solo nella fase emergenziale più acuta.
Lo dimostra il fatto che la politica ha scelto di non considerare importante l’esame, questo momento che plasma pezzetti di ricordi e di identità, ha deciso di far finta che la scuola a distanza sia eccezionale e mentre fuori tutti si vedono, si assembrano, si toccano, si baciano, bevono, mangiano e ballano, le scuole sono vuote e morte, come se la vita fosse ancora ingabbiata e chiusa nella quarantena. L’alienazione di questi giorni è poi amplificata dalla burocrazia.
Ci costringono a compilare carte su carte neanche dovessimo gestire il patrimonio della Zecca di Stato e tutti noi docenti stiamo da giorni su scartoffie di ogni sorta. E così la giornata degli esami è scivolata via grigia. Sono passata dalla cucina al salotto, dal salotto alla cucina e non ho potuto offrire niente di me ai miei ragazzi e non ho potuto onorare la parola come sempre ho fatto e come ancora vorrei continuare a fare.
La sera ho ricevuto dei messaggi belli. Belli perché alcuni alunni mi hanno scritto esattamente le cose che io avrei voluto dire e che forse ho detto ai miei maestri del cuore. Ma se ciò è accaduto è stato perché i nostri incontri hanno avuto i tre anni precedenti per esprimersi. E così li ho lasciati andar via, con la speranza di avergli insegnato ad andare via, di aver acceso la curiosità e il desiderio giusto per volare verso nuovi luoghi, per percorrere nuove strade, per incrociare altri maestri e per incontrare nuovi sguardi.
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