“Tempi scuri e difficili ci attendono. Presto dovremo scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile. […] Quando e se per voi dovesse venire il momento di scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile, ricordate cos’è accaduto a un ragazzo che era buono, e gentile, e coraggioso, per aver attraversato il cammino di Voldemort”
Albus Silente in Harry Potter e il calice di fuoco
Ho ascoltato una bella intervista che Massimo Recalcati ha fatto per il Corriere, parlando da lontano a tutti noi e cercando di toccarci con le parole e con la chiarezza che da sempre lo contraddistinguono.
In questa occasione Recalcati ha messo in luce come in effetti oggi ci ritroviamo tutti in un’angoscia depressiva che condizionerà senz’altro la nostra visione del futuro e la nostra vita di domani, sebbene questo virus non abbia nulla di democratico né tanto meno sia una ‘livella’, perché la vulnerabilità materiale di chi non ha una casa o ha una casa troppo piccola, di chi sta vedendo morire il proprio lavoro o non ha la possibilità di dispositivi tecnologici, di chi sta sperimentando una solitudine non voluta o ha perso familiari e amici è assolutamente evidente e tangibile.
Tuttavia, un disagio particolare lo sentono i nostri figli, i nostri piccoli ragazzi. Loro, molto più di noi adulti, hanno bisogno dell’aperto, dei corpi, dei compagni, degli incontri, della voce reale e palpabile dei loro professori, loro oggi sono come ‘alberi rigogliosi costretti in una serra’.
I ragazzi hanno diritto alla libertà, alla separazione, al viaggio, all’esperienza, alla strada, tuttavia in questo tempo la solitudine e la chiusura sono violentemente necessari. Ebbene, in questo quadro ossimorico che compito abbiamo noi adulti che ci relazioniamo ai ragazzi come genitori o educatori?
Secondo Recalcati, senza passare attraverso il sermone perché i ragazzi non amano le prediche, un compito nostro potrebbe essere far comprendere che questa privazione è la forma più profonda, più eticamente alta di solidarietà e di libertà. Perché la libertà non è individuale.
La verità è che l’Io, il singolo si può salvare solo se concepisce la sua libertà come forma di solidarietà e non come libertà individualistica, libertà intesa come fare ciò che si vuole senza limite alcuno.
Fino a oggi abbiamo inteso la libertà come assenza di limiti: faccio quello che voglio e dico quello che voglio in nome di una deformante e degenerata idea di democrazia. Quante volte abbiamo visto mettere alla gogna e insultare l’altro giustificando tali atti con il solito refrain: “siamo in un paese democratico quindi sono libero di pensarla come voglio”.
Quante volte il mondo virtuale e reale in nome della libertà democratica ha condannato delle persone per ‘errori’ o ‘leggerezze’ e non reati. Quante volte in nome della libertà ci siamo comportati come palline impazzite e schizofrenicamente siamo passati dal pollice verso al pollice recto, il giorno prima ammazzando e il giorno dopo santificando.
La realtà è che ‘fare quel che si vuole’ non è libertà e non porta alla salvezza e oggi più che mai ne stiamo facendo esperienza attraverso questa pandemia. Senza una dimensione collettiva, non può esserci salvezza.
Paradossalmente oggi proprio attraverso l’isolamento collettivo abbiamo l’opportunità di capire che o ci muoviamo tutti insieme o non si salva nessuno. Questo tempo sta disvelando e sta disfacendo la grande illusione della ‘versione proprietaria della libertà’, la versione egoistica della libertà su cui – aggiungo io – si fonda il capitalismo miope ed egotico degli ultimi decenni, il capitalismo che ciecamente depreda tutto: animali, cose e persone in nome di un profitto solipsistico e sordo.
Questo tempo nuovo ci mostra anche come sia stata illusoria l’idea che libertà sia espressione di ‘riempimenti’ continui, ‘consumi’ continui. Quanto è vero che, soprattutto noi occidentali, abbiamo sempre inteso la libertà come attività di otturazione.
Uscire sempre, comprare sempre, cambiare sempre, muoversi sempre, dimostrare sempre, in nome di quel mantra ossessivo che ci dice che ‘non bisogna fermarsi mai’ e che, peraltro, ha pure favorito la diffusione dell’epidemia.
E ora una catapulta imprevista e ingovernabile ci ha gettato nel tempo dei silenzi e delle pause e ci ha spogliato di tutti quegli otturatori con cui riempivamo le nostre giornate. Ebbene, questo mondo fatto di nuovi spazi può avere un potere inedito e fruttifero: ci può consentire di ‘immaginare’ una dimensione nuova per noi e la collettività.
In questo tempo forse abbiamo il compito di immaginare una dimensione politica e civile sistemica che non escluda ma includa, e qui io mi riferisco non solo alle persone e alle categorie fragili, ma al Pianeta intero con cui siamo interconnessi a filo doppio.
Ma in questo tempo possiamo immaginare anche un mondo affettivo e relazionale inedito in cui la relazione non sia più un obbligo prestazionale ma, come sostiene Recalcati, oggetto di una mancanza.
Il professore infatti annovera a questo proposito alcune esperienze cliniche di suoi giovani pazienti i quali, fintanto che hanno avuto l’obbligo del rapporto sociale prestazionale, hanno scelto di chiudersi alla vita concreta chiudendosi nella loro stanza, mentre ora che sono liberi da questi vincoli, sono usciti fuori da quella cortina, riprendendo a dialogare con i loro familiari e offrendosi anche come aiuto e supporto.
Sicuramente quando usciremo dalle nostre case dovremo affrontare problemi di ‘adattamento post traumatico’, sicuramente saremo costretti a guardare una realtà nuova.
Lì potremo scegliere se piangere di disperazione e di nostalgia per la nostra vita antica, se cercare impetuosamente un colpevole a tutti i costi, se lasciarci travolgere da quella paura atavica del contatto con l’estraneo che necessariamente si riattiverà, oppure se farcene qualcosa di questo buio e di questa chiusura per attivare una nuova apertura.
Un augurio è che alla potenza negativa di questo trauma si possa rispondere con una potenza affermativa nuova che ci liberi dell’inessenziale e ci aiuti a ridefinire le priorità mettendo in moto la nostra forza di ‘immaginazione’, come quando tocchi la morte con mano, la paura con mano, il dolore con mano e da lì accade che rinasci, ricominci a sognare e a immaginare.
Vorrei chiudere queste riflessioni ricordando un episodio di uno dei più bei libri che io abbia letto nella mia vita: Harry Potter.
Il saggio professor Silente, quando la morte insensata di Cedric (alunno di Hogwarts e amico di Harry) darà l’avvio alla stagione del contagio del Male e della morte, dirà a una platea di studenti impauriti di ‘ricordarsi’ e di ‘non dimenticarsi’ di Cedric, e quindi della morte, quando dovranno scegliere tra ‘ciò che è giusto e ciò che è facile’.
Silente non dice, come ci si aspetterebbe da un libro fantasy, di scegliere tra bene e male o tra ciò che giusto e ciò che è ingiusto, ma di scegliere tra giustizia e facilità, intendendo per giustizia il più grande atto etico che possa compiersi.
La giustizia infatti non è affatto facile: richiede sforzo, impegno, sacrificio.
Ebbene quando questo trauma collettivo che stiamo vivendo, quando il buio della morte che stiamo attraversando sarà finito spetterà a noi se scegliere la strada facile del passato e di tutto quello che è stato fino ad oggi, con tutte le sue iniquità ambientali e sociali, o andare verso ciò che è eticamente ‘giusto’ dal punto di vista sociale e ambientale; anche se questo richiederà sforzo, immaginazione e soprattutto ‘coraggio’.
La scelta spetterà solo a noi.
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