Continua la permanenza obbligata fra le mura domestiche, continuano le proposte musicali. In un periodo così drammaticamente incredibile, riuscire a impiegare in maniera costruttiva il tempo a nostra disposizione non significa tanto far di necessità virtù, quanto rispondere al bisogno di garantirsi un’evasione mentale, una fuga controllata dalla realtà che in maniera così peculiare impazza al di là della porta d’ingresso. Un’operazione, questa, in cui la musica si dimostra essere un alleato formidabile. Ecco altri dieci album, rigorosamente ordinati per anno: la settima parte di una playlist di dischi da scoprire o riscoprire nel corso di questa settimana. Qui è possibile trovare la prima, la seconda, la terza, la quarta, la quinta e la sesta parte della selezione musicale.
1. All things must pass – George Harrison, 1970
Diciamolo chiaramente: con una coppia compositiva come John Lennon e Paul McCartney nella propria band, qualsiasi musicista si sarebbe trovato in difficoltà nel ritagliarsi degli spazi adeguati, anche se risponde al nome di George Harrison e ha firmato alcuni dei migliori brani mai apparsi in un album dei Beatles, come While my guitar gently weeps e Something. Anche per questo motivo, probabilmente, il primo album del musicista inglese dopo lo scioglimento dei Fab Four è un’opera così imponente e densa di ottima musica: un triplo disco in cui ritroviamo capolavori come le famose My Sweet Lord e What is life e molti musicisti legati alla carriera di Harrison quali Eric Clapton, Billy Preston, Ringo Starr o il produttore Phil Spector. Un lungo e piacevole viaggio nel modo di intendere la musica di uno dei maggiori artisti del Novecento.
2. American pie – Don Mclean, 1971
Il secondo album di Don Mclean è uno dei momenti più alti del folk americano. Su tutta l’opera, venata di un lirismo arguto e malinconico, svettano la lunga e conosciuta title-track e la struggente Vincent. La prima è un nostalgico e criptico affresco della società statunitense a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta: un vortice di ruggenti Chevrolet, modelle pin-up e icone musicali come Elvis, Bob Dylan e il trio composto da Buddy Holly, The Big Boomer e Ritchie Valens, la cui congiunta scomparsa in un incidente aereo, il 3 febbraio 1959, fu per molti contemporanei the day the music died (il giorno in cui la musica morì). La seconda, invece, è una commossa elegia alla vita del pittore olandese Vincent Van Gogh, che trovò un estimatore anche nel leggendario rapper Tupac Shakur, il quale la considerava una delle sue canzoni preferite.
3. Blow by blow – Jeff Beck, 1975
Quando si parla della storia e dell’evoluzione della chitarra elettrica, è davvero difficile non tirare in ballo Jeff Beck: sono pochi i musicisti che lo hanno raggiunto quanto a espressività, tocco e personalità nell’approccio a uno strumento. Questo album strumentale, il primo da solista, con il suo riuscito e disinvolto blend di rock e jazz è un vero manifesto dello stile del chitarrista britannico e riesce a incantare anche un orecchio non avvezzo agli ambienti fusion. Una doverosa citazione meritano, tra le altre cose, le incursioni di Stevie Wonder, che firma Thelonius e la bellissima Cause we’ve ended as lovers, e l’apporto in cabina di regia del leggendario produttore dei Beatles, Sir George Martin.
4. Alchemy: Dire Straits Live – Dire Straits, 1984
Pubblicato un anno prima di quel grande successo che sarebbe stato Brothers in Arms, questo doppio disco dal vivo cattura perfettamente l’essenza dei concerti di Mark Knopfler e soci, di quello stile raffinato, serafico e fuori dal tempo che ha sempre caratterizzato la musica dei Dire Straits: l’inconfondibile suono della chitarra in fingerpicking di Knopfler oscilla fra il blues, il folk e il country, tra l’America filtrata dai film di Hollywood e la bigia realtà delle città industriali della provincia inglese. Il tutto a metà anni Ottanta, avulso da ogni stilema artistico dell’epoca. Versioni estese di brani come Romeo and Juliet, Private Investigations e Tunnel of love fanno da cornice a un’esplosiva versione di Sultans of swing, grande classico del gruppo inglese.
5. Our favourite shop – The Style Council, 1985
Da un gruppo fuori dal tempo a uno calato fino alla punta dei capelli nei propri anni. La musica degli Style Council di Paul Weller, già leader dei The Jam, e Mick Talbot ha raccontato tra soul, new wave, pop, rock e incursioni jazz gli anni Ottanta, ha affrontato molti dei temi caldi di quegli anni, toccando il liberismo di matrice thatcheriana e reaganiana, le ondate di razzismo che investivano l’Occidente e portando avanti una feroce critica di quella società in cui già dilagava un consumismo portato all’estremo. Su tutti i brani del disco titaneggia il singolo Walls come tumblin’ down!, che fu una hit di discreta portata in quell’anno.
6. Slippery when wet – Bon Jovi, 1986
Prima della pubblicazione di questo disco, i Bon Jovi erano una delle tante band del glam metal statunitense degli anni Ottanta, con due album di discreto successo alle spalle: poco più di una goccia nell’oceano discografico di quel momento storico. Slippery when wet cambiò per sempre la storia dei quattro musicisti del New Jersey e li proiettò tra i grandi gruppi rock del decennio. Un album, questo, che balzò ai primi posti di tutte le classifiche diventando l’epitome di un genere e dimostrando le capacità compositive di Jon Bon Jovi e del chitarrista Richie Sambora: tra hit come Livin’ on a prayer, You give love a bad name o Wanted dead or alive e pezzi meno conosciuti come Raise your hands o Let it rock non c’è un singolo brano da buttar via.
7. Blood Sugar Sex Magik – Red Hot Chili Peppers, 1991
Il quinto disco in studio rappresentò un importante punto di svolta per i Red Hot Chili Peppers: con il decisivo supporto del produttore Rick Rubin, la band californiana ampliò ulteriormente i propri orizzonti musicali, costruendo un disco dal sound leggermente più variegato del precedente Mother’s milk: il preesistente funk rock venne bilanciato da forti venature melodiche, una formula azzeccata che valse ai quattro il miglior successo discografico della loro carriera fino a quel momento e, di conseguenza, l’entrata di diritto nel novero delle più interessanti realtà di quella scena musicale alternativa che stava prendendo piede nei primi anni Novanta. Il groove di Funky Monks e Give it away, la potenza di Suck My Kiss e l’introspettiva atmosfera della hit Under the bridge sono alcuni dei tasselli di questo mosaico vivace e irriverente.
8. Standing on the shoulder of giants – Oasis, 2000
Quando si pensa di Oasis si tende spesso a volgere la mente, non certo a torto, a quel brit-pop distorto e melodico degli esordi che fece la fortuna dei fratelli Gallagher. Questo disco, uscito al volgere del decennio e del millennio, segnò per il gruppo di Manchester una virata stilistica in cui la musica dei primi anni era filtrata da un approccio più sperimentale alla composizione e alla produzione: largo dunque alle atmosfere psichedeliche e indiane di Who feels love, all’uso estensivo di sintetizzatori e di elementi elettronici. Una menzione molto particolare va spesa per Let’s all make believe, hit mancata incomprensibilmente esclusa dalla tracklist definitiva del disco, a pieno titolo nella classifica immaginaria delle canzoni più sottovalutate della storia della musica.
9. Under the iron sea – Keane, 2006
Il secondo lavoro in studio del gruppo britannico è stato descritto dai suoi autori, non senza un po’ di enfasi, come la fiaba sinistra di un mondo che gira nel verso sbagliato. In effetti, l’intero disco è permeato da un’atmosfera spesso e volentieri malinconica, in una specie di evoluzione ideale del precedente Hopes and fears, ma è anche un’opera assolutamente piacevole per composizione e arrangiamento. Un album ben strutturato che nella sua intimità conosce anche momenti di energia, come testimoniano i singoli Is it any wonder? e Crystal Ball.
10. Il sogno eretico – Caparezza, 2011
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Questo album del poliedrico artista pugliese è uno dei più “suonati” di tutta la sua discografia: un approccio alla produzione molto rock, fresco e intelligente, si intreccia alla perfezione con i temi mai banali a cui Michele Salvemini ci ha da sempre abituato in una formula di cui è permeato tutto il disco. Il consueto metro stilistico dell’ironia, preponderante in brani come Kevin Spacey, La fine di Gaia o Legalize the premier, viene momentaneamente messo da parte in Non siete stato voi, un’invettiva alla classe politica italiana di una lucidità tale che risulta veramente difficile rimanere indifferenti. Da segnalare la collaborazione di lusso con Tony Hadley degli Spandau Ballet, che presta la voce nel ritornello del singolo apripista Goodbye Malinconia, uno dei momenti musicalmente più belli di un lavoro in cui c’è davvero poco o nulla da tralasciare.
(Si ringrazia, per la preziosa collaborazione fornita, gli organizzatori del Music Remains, un’interessante realtà culturale che periodicamente, al Civico 103 di Aversa, promuove incontri di ascolto collettivo e riscoperta degli album che hanno fatto la storia della musica, rigorosamente in vinile)
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