“I giovani, quando vanno all’università, hanno già degli handicap culturali di base”. La frase secca e tagliente di Giuseppe Limone è ben motivata, come tutto il suo discorso su università, giovani, classe dirigente, comunità civile e social. Filosofo, poeta, docente di filosofia della politica e del diritto presso l’Università degli Studi della Campania ‘Luigi Vanvitelli’, Limone è una delle menti più lucide del nostro tempo, protagonista del terzo appuntamento con i ‘Testimoni di terre campane’, dopo Antonello Velardi e Mauro Felicori.
Ritiene che le università campane incidano sul territorio in cui operano?
“Le università si sforzano in Campania di incidere sul territorio. Cercano di fare uno sforzo per entrare nel vivo delle situazioni culturali e ambientali. In questa situazione molto spesso l’intero apparato scientifico cura più l’aspetto tecnico che quello umanistico-culturale. Una pratica della scienza intesa ancora in modo troppo spezzettata, troppo iper-specializzata e poco attenta agli aspetti umani e culturali. Non è problema di cattiva volontà. È un problema della cattiva concezione della disciplina scientifica. Tutti i centri di valutazione delle discipline universitarie sono fondati sul principio che le varie pertinenze devono essere considerate separate. È un errore. Non è un problema delle università campane. Perché l’università, pur stando in un territorio non è mai puramente territoriale. Ogni territorio ha una sua vocazione all’universalità, deve avere uno sguardo globale, uno sguardo sull’insieme delle condizioni dell’umanità e del pianeta. Il problema è nella concezione che gli stessi Atenei hanno della ricerca scientifica. La conseguenza concreta è che le discipline non dialogano l’una con l’altra. Ognuna va per la sua strada e quindi l’unità dell’umanità e dei territori non viene percepita”.
I giovani campani quando, per la prima volta, varcano la soglia delle università sono già disillusi?
“I ragazzi, a cui va la mia massima simpatia, certamente possono avere speranze, ideali ed è bene che le abbiano. Però purtroppo quando vanno all’università hanno già degli handicap culturali di base. Hanno delle carenze di formazione, che sono dovute a fattori molteplici. La tecnologia, che potrebbe essere utilissima, è diventata una fantasmagoria di mezzi che ha perso il senso del fine. La scuola dovrebbe avere la funzione non soltanto di darti le cognizioni sui mezzi, ma offrirti una conoscenza dei fini, che una volta si chiamavano valori, i valori dell’umano. Nessuna disciplina scientifica può essere considerata avulsa dall’umano. Io ho sempre pensato che facoltà scientifiche e facoltà umanistiche dovrebbero essere molto più vicine, inserendo discipline umanistiche nelle facoltà scientifiche e discipline scientifiche all’interno di facoltà umanistiche. Lo scopo è di mettere ogni disciplina in rapporto dialettico con le altre. Non è un problema di cui devono farsi carico i giovani, ma i giovani, in qualche modo, dovrebbero esserne protagonisti. Invece, spesso sono vittime di una tecnologia che utilizzano senza comprendere”.
Quali azioni bisognerebbe intraprendere per rafforzare le qualità del nostro territorio?
“Bisogna potenziare la cittadinanza attiva, che non è semplicemente il fatto che si voti. La cittadinanza attiva è quando si è sensibili al bene comune, anche quando ci si occupa dell’alberello sotto casa. In quel momento si compie un atto pubblico. Noi riteniamo erroneamente che il pubblico sia solo ciò che è statale. Il pubblico è la comunità e la comunità rappresenta quell’elemento che ci tiene insieme prima che ci sia uno Stato. Chiunque faccia un gesto di cittadinanza attiva fa un gesto pubblico-comunitario e bisogna allevare le nuove generazioni a questa nuova consapevolezza, grazie alla quale si può andare molto avanti, ma senza si può tornare indietro. Il problema è che i politici sono assolutamente separati dal territorio, ma questo non è solo responsabilità dei politici e anche responsabilità della stessa comunità che li elegge. Io lo dico per paradosso: se i politici non diventano disonesti, non vengono rieletti e, quindi, il politico che si muove per la comunità ha poche probabilità di essere eletto, perché ognuno, in quanto privilegia il proprio particulare, non riesce a capire il bene comune. La scuola non dovrebbe dare solo il mestiere, ma dovrebbe dare il senso del bene comune. La scienza deve essere sempre accompagnata dalla coscienza. Ci vuole l’educazione, insieme alla formazione. Perciò io parlo di nuovo romanticismo. Il romanticismo ha capito che il pensiero non può essere separato dalla passione, dalla fantasia e dall’emozione. Se noi insegniamo a produrre separazione fra l’intelligenza calcolante e l’empatia, l’emozione, diciamo di voler progredire, ma stiamo puntando a regredire, cioè a ridurci ad una barbarie tecnologica. Questo non è un discorso all’antica, è un discorso per il futuro”.
La globalizzazione ha reso il mondo più competitivo. Pensa che questa competizione abbia indebolito realtà sociali come quella campana già alle prese con i suoi annosi problemi?
“Nella misura in cui è decresciuto il senso del bene comune, sì. Perché molto spesso si pensa al proprio particulare credendo che così di esercitare la libertà. Ma la libertà accoppiata alla responsabilità è essenziale. Il senso del bene comune dovrebbe agire verso la libertà unita alla responsabilità. Scuola e università sono essenziali in questo discorso. Se però lo fai ai ragazzi, magari quelli meno formati, ti direbbero ‘ma questo non mi dà pane’. Ma se cresce il valore del mio territorio cresco io e viceversa. Questa idea dovrebbe essere inoculata dalla scuola, dalle famiglie, dall’università, perché è elemento costitutivo per stare insieme. Quindi c’è il problema della formazione dei non eccellenti. Chi non è eccellente che fa? Si deve dare alla camorra? Bisogna far capire l’importanza materiale dell’immateriale. L’educazione è un dato immateriale che però è materialmente incisiva. Tutto questo dovrebbe farlo l’università, ma i colleghi, con un sorriso, mi direbbero: ma tu che stati dicendo, noi dobbiamo semplicemente fornire le armi per la professionalità. Ma non è così”.
Parliamo della classe dirigente campana. Qual è il difetto maggiore e soprattutto con queste premesse si può sperare in una classe dirigente diversa?
“Il problema non è solo della classe dirigente, ma di chi la elegge, anzi di come è formato chi la elegge. È un problema di comunità civile. Non dico di società civile, perché quest’ultima è pensata così: io estraggo coloro che si trovano nei pubblici poteri e ottengo la società civile. La comunità civile comprende tutti, anche coloro che ricoprono cariche pubbliche. Se la comunità civile non ha queste caratteristiche, degenera e produce eletti degenerati. Bisogna far crescere la comunità civile, la vera detentrice del potere. Questo diventerebbe un programma di vita che non riguarda solo le classi dirigenti, ma riguarda tutti, anche la comunità civile, perché se una classe dirigente è degenerata e perché è la comunità civile lo è. Un’altra grave frattura che vedo nella società contemporanea, quindi anche nella nostra regione, è quella di un duplice fallimento: da un lato quello degli intellettuali che si sono separati dalla gente comune, chiudendosi in una rocca di cristallo, dall’altro lato la gente comune si è scagliata contro questa rocca di cristallo. Sono due eccessi: un rivendicazionismo selvaggio, che non ha il senso delle cose, che sta chiedendo, e un intellettualismo astratto, che rivendica i propri privilegi e il proprio status”.
In tutto questo i social hanno ormai preso il sopravvento. Cosa ne pensa della rete?
“I social sono uno straordinario strumento di comunicazione, direi di democrazia diretta, nella misura in cui tutti possono partecipare. Ma anche il social è un mezzo, non fine. Che uso faccio dello strumento social? Lo uso per i pettegolezzi da cortile, per aizzare odi, oppure per trovare soluzioni? Lo stesso mezzo, quindi, può essere usato sia per il bene sia per il male. Oggi abbiamo strumenti molto più potenti rispetto al passato, ma dobbiamo formarci, educarci all’uso di questi mezzi. Non possiamo farlo dall’oggi al domani, ma si deve innescare il processo. Ognuno di noi è responsabile, nel suo ambito, di mettere in moto questo processo. Se ho la libertà di usare questi mezzi devo usarli per il bene comune, per la speranza, non per la disperazione. Bisogna avere un pessimismo intelligente e attivo, quindi un nuovo romanticismo che dia ali alla responsabilità e alla speranza. Ognuno di noi, nel nostro piccolo e grande mondo, può dare l’esempio. Non è un problema avulso dall’università e dalla scuola: è un problema anche dell’università e della scuola. Con i piccoli gesti si possono fare delle rivoluzioni non violente, che sono essenziali, necessarie e salutari”.
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